domenica 27 luglio 2008

Chiudere il cerchio

Qualche giorno fa ho letto questo post sul blog di Lara.
La difficoltà di rendere il pensiero dei personaggi e in sè e per sè di non cadere nell'artificio dei dialoghi. Una bestia nera, insomma.
Il discorso diretto mi riesce sempre difficile.
Forse perchè manco di spirito e di battuta pronta. Ci metto un po' insomma, a trovare la risposta. Per questo, di solito, nelle storie adotto due opzioni: o discorso indiretto (più o meno libero) o flusso di coscienza (e qui i problemi di moltiplicano, accidnti).

Ieri ho finito Garasudo no Uchi. La prima storia a capitoli che concludo, del nuovo ciclo (il vecchio è quello dei cavalieri, ma si ferma con il 2004). Doveva essere veloce, e ci ho messo sette mesi. Non male^^ Soprattuto considerando i due anni per Un soffio di vita...

Comunque.
Adesso mi piace. Adesso sono soddisfatta. E domani so già che sarò di nuovo sul computer a cambiare e ricambiare; perchè mi sembrerà orribile. Maledettamente orribile.
In generale, comunque, mano a mano che procedevo, ho riflettutto su due cose, in particolare. Ed entrambe, di nuovo, sono legate ad alcuni post di Lara.

Uno è questo: le descizioni
Naya non è descritta. Praticamente mai. Nemmeno nella mia testa ha una sua figura definita. Naya è solo un nome che vive una storia. Una sorta di spersonalizzazione nominale, se possibile. Non sono ancora arrivata a livello di Sara Kane (se tralascio i mei frustula, ovvio. Ma quello è un altro discroso). Però si potrebbe provare. Personaggio 1; personaggio 2. O ancora meglio: solo 1 e 2.
Comunque. Naya non esiste. Se non come voce narrante.
E qui c'è il secondo punto.
La prima persona. E di nuovo Lara mi ha messo la pulce nell'orecchio/. Insomma: condivido bene con lei l'idea che scrivere in prima persona non è affatto facile.
Soprattutto se provi a scrivere un flusso di coscienza.

Me ne sono accorta. Ci sono andata a sbattere prorpio forte.
Con Naya, appunto.
Avevo scelto fin da subito di non descrivere i suoi pensieri. Sarebbe stata lei a parlare. A differenza che con gli altri personaggi. Ma mano a mano che scrivevo ( e incappavo nelle qustioni: adesso si alza, adesso sorride, adesso piange, adesso ride...) mi dicevo: lei parla, agisce e pensa assieme. Come faccio a renderlo?
Oddio, si può sempre ricorrere al solito stratagemma, del tipo:

"Lui mi dice che...E io gli rispondo che...
Mi siedo e ascolto; piango e lui..."

Lui. Io. Dice. Rispondo.
Va bene. Ma in un diario. Se io sto descrivendo in prima persona un fatto avvenuto (il passato non è un obbligo, sia chiaro). Ma se il fatto sta avvenendo? I egli dice, io rispondo non esistono nel pensiero.
Io non penso di rispondere e poi parlo. Io parlo e basta. E non mi rivolgo al mio intelocutore dicendo lui. Lui è un tizio che può essere a mille miglia lontano. Gli dò del tu.
Accidenti!
E' la stessa cosa per le azioni. Se voglio sedermi, non penso di sedermi e poi mi siedo. Lo faccio e basta.
Per esempio: devo raccontare in prima persona il mio pranzo.
Non so. Ma iniziare con : mi siedo a tavola e noto che c'è una tovaglia quadrettoni rossi e bianchi con qualche macchia di sugo qua e là. Prendo la forchetta alla mia sinistraa e il coltello a destra e taglio la carne che si rivela un po' troppo dura.

Non credo che qualcuno pensi così. Nessuno nota, in prim persona. Vede e quindi elabora subito. Ed elabora in modo personale. Oppure le forchette. Perchè mai dovrei dire sono qui o sono lì? Il loro posto lo so bene; lo impariamo quando inizaimo a fare la tavola da soli, no? E non credo che l'argenteria decida di punto in bianco di andarsene a spasso per la tavola. E la carne, poi. Ovvio che taglio quello che ho nel piatto.

Insomma: la questione che ho afforntato con Naya (senza riuscirci in modo soddisfaciente, però) è: come faccio a scrivere in prima persona senza descrivere? Il flusso di coscienza puro, insomma. Che faccia capire quello che sto facendo e dicendo come se lo si vedesse per immagini. senza cadere in quegli artifici teatrali che sono l'intercalare di vari dice, rispondo.
Che chiariranno anche, ma rompono del tutto la finzione narrativa della prima persona.

In conclusione: Naya è il primo tentativo (goffo e rasente il disastroso, temo) di trovare un mai personale soluzione al problema.

Se poi ci si mette King con il libro che ho letto...Ma questo è un altro discorso.

lunedì 14 luglio 2008

Memorie di una geisha

A me diceva che ero come l'acqua,
l'acqua si scava la strada
attravverso la pietra,
e quando è intrappolata,
l'acqua si crea un nuovo
varco.



Paraventi di riso; cipria bianca; labbra rosse. E kanzashi fluttuanti, kimono ricercati e complessi. Arte e grazie anei movimenti. L'ombra fuggevole di un mondo che, della perfezione inafferrabile, ha fatto la sua arte, la sua essenza.

Memorie di una geisha ripercorre fra luci e ombre, soprattutto nel gioco cromatico, nei contrati ora accesi che sfumano in tinte pastello, la vita di una delle più belle geisha: Sayuri Nitta. Il piccolo giglio.


Il passaggio dal mondo nascosto alla devastazione della guerra. La sottile differenza che è l'orgoglio di una geisha; quello che la distingue da una prostituta. L'abbrendistato lento e paziente; la raffinatezza di un arte che non è ventida di corpo, ma di movenze, di sottile gioco di seduzione, di abilità tranquilla e sorridente di offendere e conversare.


Il Giappone di inizio secolo negli occhi occidentali. E può sorprendere il fatto che la lettura sia abbastanza verisimile. Che, anzi, dia per scontate varie cose, lasciandole intuire. Sbattendo in faccia significati e simboli che possono gettare nella confusione, che possono passare sotto silenzio. Inosservati.

Incapiti.

I kimono che cadono sulla schiena. Il bianco di una youki-onna sotto i riflettori. Il trucco e i gesti improvvisamente rapidi, vorticosi che spaizzano contro il rosso centellinato della coreogrfia precedente. Parole che scivolano alle orecchie; altra lingua, altri significati.

Altra mente.

Una mente che non si può pretendere di capire; di invadere.

Giudicare dal punti di vista morale, di una morale nostra, è sbagliato. Toglie. Taglia. Smarrisce.


Peccato forse per la velocità della vita; peccato per il finale tronco rispetto al libro. Ma forse è meglio così. Rimane una sotria, una memoria che assomiglia ad una fiaba. Un scolorare nella memoria; fragile e indefinito come il mondo cui appartiene una geisha.




Lei si dipinge il viso per nascondere il viso,

i suoi occhi sono acqua profonda.

Non è per una geisha desiderare,

non è per una geisha provare sentimenti.

La geisha è un’artista del mondo che fluttua;

danza, canta, vi intrattiene, tutto quello che volete.

Il resto è ombra.

Il resto è segreto.




giovedì 10 luglio 2008

Lunghe attese

Ieri ho inserito su Efp una nuova vecchia storia.
Una fanfiction del fandom dei Cavalieri. Nulla di straordinario, ma mi sono fermata a pensare. Un attimo.
E quando lo faccio, poi i pensieri impazzano.

Dunque.
I Cavalieri. Sono stati il primo manga /anime su cui abbia mai scritto qualcosa. E va bene fin qui. Tutti i fanwriter partono così. La storia non piace molto, ha deluso (come con il finale di Inuyasha per intenderci), attira un personaggio particolare.
Ho letto da qualche parte che per fanfiction si intende quella degenerazione(?) dello scrivere, in cui dar sfogo alle proprie frustrazioni inappagate. Soprattutto quando si ha dai tredici ai diciotto anni.
E allora impazzano amikette con trame labili, personaggi stravolti e soprattutto nuove entrate che calamitano attorno a sè tutta la storia (le famose Mary Sue). Ora: non tutto è brutto; non tutto è bello. Prendetala come dilagante premessa generale (molto generale; il discorso su cosa sia esattamente una fanficiotn sta diventando sempre più complicato).

Insomma. Quello che di cui mi sono accorta, ieri sera, è che ci ho messo sette anni, prima di creare (anzi: concepire proprio) la possibilità di dar vita ad un personaggio mio. E non nel fandom dei Cavalieri.
Non perchè sia sempre assolutamente e pienamente soddisfatta di tutto, in loro. Ma non so. Li ho sempre visti come un universo chiuso. Da non rovinare con intromissioni diverse. Ho sempre preferito l'approfondimento psicologico, per loro. Giocare in casa, ecco.
Muovermi fra personaggi fatti e definiti. E provare a girar loro attorno. A vederli da nuove, diverse angolazioni.
Non che il risultato debba esser buono o sufficiente. Mi sono chiesta il perchè di questo approccio.

Creare un personaggio non è facile. Non è mai facile; soprattutto se lo si inserisce in un universo già ben collaudato. Alessandra, in questo senso, è stata e continua ad essere una piccola sfida. Perchè è il centro di una storia di cui NON voglio sia il pilastro cardine. Muove le cose e non le risolve; si inserisce nella vita di Sua Grazia e non la cambia, non più di tanto almeno. Sesshomaru resta demone, resta indifferenza verso i ningen.
E allora non so cosa diventerà.

Però. Però ritroniamo, o divago troppo.
Insomma: ci ho messo tanto a decidermi a provare (e quindi devo ancora migliorare, è ovvio! Nessuno riesce mai al primo tentativo) un original caracter (inglese! Diventrà un uncubo, lo sento XD). Il risultato, primo, è opinabile.
Ma non mi fermo su questo, adesso.

Adesso mi chiedo: perchè?
Va bene: i Cavalieri li vedo chiusi. Ma non è sufficinete.
Penso che non mi sentissi pronta. Non che adesso lo sia più di allora, ma prima o dopo dovevo provare.

martedì 8 luglio 2008

Divagare o riempire

Due giorni fa pioveva. anzi: diluviava.
E io ne ho approfittato. Stephen King. Il primo libro che abbia mai preso in mano, di questo autore.
E come mio solito sono partita dalla fine. Dall'ultimo capitolo e dalle note conclusive. Perfetto. so come finisce. Ma non ho la più pallida idea di come ci si arrivi, a quella fine. Niente.
Di solito, è il mio divertimento.
Cerco di costruire io, la trama.
Cerco di capire i procedimenti. Ma qui. Qui mi inizio a muovere in un mondo che non è mio. Che non conosco ancora.
Però, mi sta piacendo. A pelle.
Anche se, ad esser precici, sono partita da metà. O dalla fine.
Insomma: ho preso un libro che sembra la continuazione (ho il fortissimo sospetto che lo sia davvero) di un altro libro. O forse il suo epilogo. Ma non importa.
Intanto questo. Poi il precedente. O il seguente.
Se davvero essite.

Invece, mi sono accorta che esistono vari tipi di scrittori.
E King, per me, è uno scrittore per digressioni. O io, almeno, ho deciso di battezzarlo così.
Perchè racconta per digressioni. E non è facile. Affatto. Sono tanti a farlo, e poi ti ritrovi a dover tornare indietro di trenta pagine, perchè ti sei dimenticato qual era il filo portante, della storia.
Qui no.
Qui tutto sta al suo posto.
Perchè sono digressioni utili. Non che ritenga le digressioni inutili; ma dipende da come l'autore le usa. Ecco: io metto una digressione in una storia. Perchè lo faccio? Per riempire pagine?
Temo che allora posso benissimo cancellare tutto. Digressioni riepitive non ne servono, in uno scritto. Mai.
Aria fritta direbbe una persona che conosco.

Ma digressioni che riempioni i silenzi, quelle sì.
Quelle servono. Perchè danno voce ai pensieri della testa.
E' un po' sciocco, ma in realtà la nostra vita non è mai zitta. Forse non parliamo, però pensiamo.
E questi sono i nostri riempitivi, le nostre digressioni in fieri.
E nella narrativa, come si fa?
Si descrivono i movimenti, si elencano azioni, oggetti, colori, tecnicismi?
Un modo è quello di pensare. Un modo è quello di King.

Non è l'unico. Non credo proprio.
Però è un metodo che non mi dispiace.
Affatto. Anche perchè lo fa bene.

sabato 5 luglio 2008

Opera d'arte (?)

Sabato.
Non succede quasi mai nulla, di sabato.
Ho aperto Efp quasi per noia. E ho scoperto il nuovo capitolo di Shashee. Ormai ne sono convinta: una storia che delizia. Un sorbetto al limone.
Questa notte ci penserò su, e domani cercherò di scrivere il commento.
Assime all'altro.
Cavoli. Cavoli.
La storia di Laurie è troppo bella per sminuirla così.
Uffa!!!

Comunque.
Trento di notte è bella.
Luminosa. Con il cielo di una sola tinta e la foschia (inesistente) attorno alle montagne. Inquinamento luminoso. Non c'è nemmeno una stella.
In compenso, in Piazza Duomo, è pieno di lavatrici.
Sopra a dove passava la roggia. E se chiudi gli occhi e prendi un bel respiro, la senti ancora.
C'è l'acqua sotto quella astra di marmo (o è porfido?).
L'acqua che corre verso l'Adige.
L'acqua degli annegati, dei panni lasciati a mollo con la cenere calda e l'aceto, e di quelle lavatrici.

Un'opera d'arte.
Recita il foglio, quatidiano, appeso sul coperchio.
Non ho ben capito cosa voglia rappresentare. Certo. Ho letto la spiegazione.
E continuo a non capire.
Un tuffo (restiamo nel campo liquido, và) nel passato? Una crociata ecologista?
Un modo come un altro per attirare l'attenzione?

Mah!
Resta il fatto che mi sono dviertita a osservare formichine bipedi affacendarsi attorno alle lavatrici di Piazza Duomo.
E il Nettuno sorride sornione.
Che si faccia beffa della nostra piccolezza?










Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.


E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.


Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.
Pascoli Giovanni, Lavandare, in Myricae

venerdì 4 luglio 2008

Dietro una fine

Inuyasha è finito. Da un mese ormai.
E la fine, l' heppy endingi (si scriverà così? Odio sempre di più l'inglese), non ha soddisfatto. Praticamente nessuno.
Ci siamo divertiti a riprovare, a riscrivere un finale piatto e, in fondo, fin troppo banale. Ne sono uscite mille storie. Molto belle.
Divertenti, sarcastiche, tragiche.

E intanto, conto i mesi. Perchè mi sono accorta che, in fondo, nove mesi sono pochi.
E fra nove mesi esce Esbat.
Sono curiosa. Non lo nego.
E trovo un po' di interrogativi e di crisi essitenziali nel blog di Lara.
Come la discussione sulla prima e la terza persona. Qual è meglio usare, quale è più facile usare? (sempre che si possa usarlo, l'aggettivo facile).
Non lo so.
Con Naya sto impazzendo.
Seriamente impazzendo.
E scoprendo la complessità dell'IO.

Insomma: rendere il pesniero e il parlato assieme, senza accartocciarsi in inutili e falsi verbi fraseologici, senza perdersi in descrizioni che non faremmo mai se fossimo noi a parlare, veramente; e insieme restare esaurienti.
Non credo che ci riuscirò mai davvero.
Già adesso non so quanto possa ritenere pseudosoddisfaciente il risultato.
Ma tant'è. Intanto, finisco.
Poi, si inizia a scrivere.
Seriamente.

E' buffo, ma credo proprio che sia così: a scrivere si parte dalla fine. Quando hai il tuo bel tema, testo o quello che sia, fra le mani. Pronto alla consegna. E allora. Allora prendi in mano la penna rossa, e inizia a scrivere. Non a correggere. Quello verrà dopo. Quello verrà quando ti deciderai a dire "ho finito".
Allora, potrai correggere.
Ma scrivere. Scrivere inizia davanti al lavoro finito.
Al canovaccio che si rivela essere la bella copia. E la brutta copia è una scaletta un po' ribelle, che ti porta dove forse non ti saresti aspettato di arrivare.

Non so.
Naya per prima. Poi vedrò.
 

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