domenica 30 settembre 2007

Scomparire




È tornata.
Quella stanza buia. Senza uscite.
Te ne sai accorta, vero?
La voce non ha suono.
Non passa nulla.
Nemmeno la luce.

Resti chiusa dentro.
Rimani.
A terra. Piegata. Avvolta. Sprofondata.

Non puoi uscire. Inutile.
Basta ribellarsi. Resta solo quell’ illusione.

Pensavi di averla chiusa.
Eri sicura di averla sbarrata. Te ne eri andata con la chiave in tasca. Per perderla chissà dove.
Dimenticata.
Passata.

Non è servito.
E tu ci sei di nuovo dentro.
Soffochi. Le mani strette alla gola.
Non respiri. O sei tu a non volerlo più fare?

Che importa? Nulla.
Lo sai. Tanto, in questa stanza non arriva niente.
E il silenzio è bianco. Come la neve. Come la paura. Ovatta.

Silenzio. Silenzio. Silenzio!
Quanto può urlare il silenzio?
Ti sembra di impazzire.
Vedi. Vedi la luce. Li fuori.

E non la puoi toccare.
Non ci arrivi.
La porta si è chiusa di nuovo.
Sprangata dietro di te.

Tremi. Piangi. Disperati.
Non serve.
Lo sai.
Lo sai anche tu.

Non serve a nulla.

Quella luce l’hai sfiorata una volta.
Ricorda.
Prima non c'era.
Adesso, non resta fuori.

S’insinua fra le inferiate.
Provaci.

Ricomincia.
Riapri.
Ritorna.
Continua. A vivere.

venerdì 28 settembre 2007

Lete: fra due realtà



La comunanza di immagini, nei pensieri e nelle illusioni di culture e civiltà che intrecciano se stesse.


A voi.

Riflettere.

Lete: fra due realtà


La comunanza di immagini, nei pensieri e nelle illusioni di culture e civiltà che intrecciano se stesse.
A voi.
Riflettere.

sabato 8 settembre 2007

Il cielo sopra Berlino

Mi piacerebbe vedere la tua faccia, giusto per guardarti negli occhi e dirti
quanto è bello essere qui…Quaggiù è bello fumare, prendere un caffè…e se lo fai
insieme è fantastico.

Peter Falk, nel ruolo di se stesso.



Wim Wanders. Maggio 2004.
Fu la prima volta che vidi questo film. La prima, grazie alla creatività del mio professore di italiano.


Una fascinazione che sfiora la filosofia, sale nelle pieghe dell’immaginazione e scende nei recessi dell’ovvietà.

Un film. Un insieme di scene trasportate su una striscia di cellulosa. Fotogrammi montati con pazienza ed arte. Splendido. Complesso, ma mai complicato. Come sono tutte le cose. Come dovrebbero essere molte cose.

Un inno.
Alla semplicità e alla bontà. Un freccia spezzata per quella banalità, per la naturalezza e la consuetudine della quotidianità che viene persa nelle pieghe di una vita che, alla fine, non viene vissuta.

Straniante.
Sentimenti conosciuti ritratti per intuizione; livello fisico ed emozionale. Temi che si intrecciano, malinconia, riflessione, dolcezza. Dolore. Rassegnazione e speranza.

Impotenza.
Davanti a qualcosa che non si capisce; davanti alla voglia di capire. E di cercare di farcela.

Tematiche. Molte.
L’infanzia, l’amore, l’identità, l’introspezione, la memoria, la possibilità di decidere…Sono molte, e non tutte facilmente afferrabili, in una trama che scorre lenta e languida sullo schermo nelle sue sfumature di chiaroscuro.

Bianco e nero. E grigio. Come la vita che sfiora il cuore di ciò che la muove, che la rende degna di esser vissuta.

I colori. Alla fine. Quando, finalmente, la corazza degli angeli diventa troppo pesante e precipita al suolo. Diventa una semplice armatura, buona solo per esser impegnata.

Chi sono io?

Basta questa semplice, ingenua, infantile domanda. È questo il fulcro della narrazione. È una domanda pericolosa. Scomoda. Perché significa affrontare se stessi. Mettersi in discussione. E, forse, restare intrappolati in un labirinto, in un circuito mentale che noi stessi creiamo, dimenticandoci di pianificare anche l’uscita.

Eppure, porsela è all’origine del dubbio, del gusto dell’uomo si sfidare. Chiunque. Anche se stesso.

Una fiaba. Dolce, lenta, struggente. Agrodolce. Come quelle dell’infanzia. Con angeli umani che scendono sulla terra, con un uomo che porta la memoria smarrita del passato, con la speranza della resurrezione fra macerie di muro e sterpaglie.





Quando il bambino era bambino, si strozzava con gli spinaci, i piselli, il
riso al latte e con il cavolfiore bollito. E adesso mangia tutto questo, e non
solo per necessità. Quando il bambino era bambino, una volta si svegliò in un
letto sconosciuto, e adesso questo gli succede sempre. Molte persone gli
sembravan belle, e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di
fortuna. S'immaginava chiaramente il Paradiso, e adesso riesce appena a
sospettarlo. Non riusciva a immaginarsi il nulla, e oggi trema alla sua idea.
Quando il bambino era bambino, giocava con entusiasmo, e adesso è tutto immerso nella cosa, come allora, soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.

Canzone d'autunno


Les sanglots longs
des violons
de l'automne
blessent mon cœur
d'une langueur
monotone. Venature sott

Tout suffocant
et
blême, quand
sonne l'heure,
je me souviens
des jours anciens
et
je pleure;

et je m'en vais
au vent mauvais
qui m'emporte
deçà, delà,
pareil à la
feuille morte.


Paul Verlaine, Canzone d'autunno, da Poèmes saturniens, 1866




Questa mattina ho raccolto una foglia di quercia. Niente di particolare. Solo una piccola foglia, uguale a mille altre. Davanti all’entrata. Vivida. Color noce. Colore finto. Di legno. L’ho alzata nella luce. contorni nitidi ed eleganti. Venature sottili e precise.

Ho percorso il bordo con l’indice. Appena seghettato.

Perfetta. Normale. Definita.

Morta.

Era morta. Inesorabilmente. Desolatamente.

Si è posata sul selciato. Lenta. Ovvia. Certa. Alla fine della sua vita. Di una vita che dura una stagione. Ho guardato in altro. All’albero. Ai rami. Cercavo. Cercavo con attenzione, con...Cercavo. E basta. L’illusione di poter tornare indietro.

Follia.

Potrei anche ritrovare il ramo che ne è vedovo. Potrei anche ritrovare il suo vecchio posto. Già, vecchio. Passato. Andato. Dimenticato. Cancellato.

Perchè questa foglia che tengo in mano non fiorirà più. Cadrà. Si dissolverà. Cenere. Grigia. Bianca. Nera. Marcio. Decomposizione. Putrido.

Passerà.

Passa tutto. Ogni più piccola cosa. Passa, e non ritorna. Nemmeno la natura. La si dice eterna...Fantasie. Non esiste nulla di eterno. E, benchè, in primavera, di nuovo, questa quercia fiorirà, la foglia che adesso riposa in un mio libro sarà stata. E nessuno la ricorderà. La rimpiangerà.

Alcuni dicono che l’autunno è triste.
Per me, è la stagione più bella. Tavolozza di colori. La mia anima.


Danza di foglie morenti.

Danza d’autunno.

Ipnosi.

Ondeggiano, giocano, s’intrecciano, oscillano…Ultimi respiri prima della terra. Prima di accartocciarsi. Irrimediabilmente svuotate.

Colori. Giallo; rosso, verde, marrone. Un’esplosione. Una bellezza intensa e struggente.

Adoro l’autunno. Questa stagione malinconica.

L’autunno.

Rami spogli: dolori vissuti. Chiome variopinte e cangianti. Intermezzi emotivi, tasselli di un puzzle che si chiama vita. E infine…infine spruzzi di sempreverdi: sogni e speranze.

Adoro l’autunno. Una stagione che pulsa di vita, d’eccitazione. Trepidazione pura.

Che mi restituisce il sapore antico del tempo che passa.

Lentamente.

Tranquillamente.





 

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