mercoledì 24 dicembre 2008



Parole d'augurio
sillabe sussurrare
per colorare a festa
l'ostinato grigio
di giorni uguali.
Novalis

Tanti auguri

di

Buon Natale


martedì 21 ottobre 2008

Scaffale dopo scaffale

E siamo a due!

Quest'anno, davvero, si sta rivelando denso di sorprese sul versante editoriale.

E se per Esbat si dovrà attendere fino a primavera prossima (ma anche l'attesa è paicevole. Oh! Molto piacevole, comunque), l'altra piacevole novità è ormai imminente.

E il posto sullo scaffale è già pronto.


A Novembre, infatti, esce, nella collnana I love anime della Jacobelli, il primo libro sui Cavalieri dello Zodiaco edito da autore italiano e completamente dedicato all'anime/manga.

Ma la descrizione la lascio all'autore:


Saranno 128 pagine di approfondimento, commenti e
informazioni, sia per i neofiti che per chi ne sa di più, con box dedicati pure
ad Episode G, Gigantomachia, OAV, Next Dimension ed LC (si, pure loro ^^) e
centinaia di immagini di tutti i tipi .

Ma non solo, il libro avrà un'ampia zona di interviste ai
fans, dove, tra gli altri, alcune colonne del forum come Ale, Dark, Ioria,
Kanon, Goldsaint, Flare, Saga Rules, il Grande Mu, Marco e altri, ed alcuni fans
esterni al board, racconteranno il loro primo incontro con i CdZ .


Non un semplice "riassunto" delle varie informazioni, quindi.

Ma un libro per i fans, scritto da un fan che, a ragione, può essere definito un guru nel settore e che permette ai fans stessi di parlare.


Complimenti davvero, Shiryu!

Un progetto che merita!





[Per maggiori infomazioni e per seguire le evoluzioni:

mercoledì 1 ottobre 2008

Taglio del nastro



E' ufficiale.
Da oggi, il mio sito personale, Antemoessa, apre i battenti.
C'è ancora qualcosina da sistemare, ma con tempo
e pazienza.
Tanto tempo e tanta pazienza.
Grazie a tutti!

martedì 2 settembre 2008

Gatti e P.O.R.C.O.

Alzi la mano chi non ricorda il gatto di Alice.

Quel gattone a strisce con un sorriso grande grande che fa correre un brivido lungo la schiena. Perchè chi ride troppo è sempre un po' inquietante. Ebbene: quel gatto sornione, dondolante, tanto sicuro nella suo sconclusionata favella, é inquietante.

Perchè dice la cosa più giusta ovvia del mondo. Ricordate?


"In quale direzione devo andare adesso?" chiede Alice.

"Dipende molto da dove vuoi arrivare" risponde lo Stregatto.

E mai risposta fu più appropriata e magistrale.


Come si fa a decidere la strada se non hai la meta? Si può lanciare in aria la classica monetina e come và và. E non è del tutto un modo da disdegnare. Ci avete mai provato? Io sì! E vengono fuori dei percorsi alquanto inaspettati. (Per carità! Non mi sono certo messa a girare l'Italia con un sacchetto di monetine in mano -perchè regolarmente uno o due si possono perdere-; ma qualche giretto in campagna così certo che l'ho fatto. Soprattutto da bambina).

Dunque: le monetine sono utilissime, ma lo scopo è il viaggio, non l'arrivo. Da non disdegnare, assolutamente mai. Ma in un racconto o in un tema non si procede di molto.


In un racconto si deve avere ben chiaro qualcosa. In primis quel qualcosa.

Perchè se ci si mette davanti ad un foglio senza le idee (chiare- o almeno vagamente adombrate nella nebbia) si rischia di girare e girare e contribuire all'aumento del disboscamento mondiale e alla produzione di inchiostro. Ma una storia sensata non ne esce. Proprio no.

Ci vuole una cartina, ecco.

Una bella cartina (possibilmente SEMPLICE. Perchè di tempo per complicare le cose ce n'è sempre molto. Anche una strada di dieci minuti), con nomi di capoluoghi, paesini e qualche noticina morfo-idrologica che fa capolino qua e là. Giusto per ricordarsi che c'è qualcosa, oltre la sctriscia d'asfalto (inchiostro).

In termine "tecnico" si chiama SCALETTA. Ed è l'incubo dei ragazzi in età compresa fra gli undici e i diciannove anni. Era anche il mio incubo personale. Perchè mi mettevo con le migliori intenzioni e poi, puntualmente, se avevo deciso A usciva B. L'unica cosa positiva era che usciva qualcsa di sensato. E piano piano ho messo a posto il problema, ormai.
Cicerone insegnava bene, e con lui la retorica antica: MAI parlare, se non sai davvero cosa dire. in caso contrario, meglio un dignitoso e composto silenzio (che evita anche colossali figuracce). Allora c'erano inventio, dispositio, elocutio, actio e memoria. E scrivere e recitare un testo era uno spettacolo, nel vero senso della parola. Nulla era lasciato al caso, fin dal più piccolo gesto (come far denudare il petto di un uomo accusato durante un processo).
Oggi non si arriva, sui banchi di scuola o nel quotidiano, a un simile pathos, ma la coerenza non deve finire per questo alle ortiche.
Gli antichi avevano gli Aristotele e i Quintiliano, e noi abbiamo Severgnini, con il suo più rustico ed efficacie P.O.R.C.O. ovvero:


P ensa (aspetta a scrivere: prima decidi cosa dire)
O rganizza (elenca i punti da toccare = scaletta con connettivi)
R igurgita (butta fuori, senza pensarci troppo)
C orreggi (e rileggi con calma, almeno due volte); O metti (togli tutto ciò che non è necessario).

Un buon punto di partenza, no? (Praticamente la sclatetta della scaletta)

lunedì 1 settembre 2008

Dentro la notte



Tánic sam slán sóer
díambi clóen cail cíar,
lingid ag seng snéid,
díambi réid rón rían.

Canaid cuí céol mbinn mblaith,
díambi súan sáim séim,
lengait éoin cínin crúaich
ocus dailm lúaith léith.

Foss n-oss rogab tess,
gáir dess cass cúan,
tibid trácht find fonn,
díambi lond ler lúath.

Fúam ngaeth báeth barr
dairi duib Drum Daill,
rethid graig máel múad,
díambi dín Cúan Caill.

Maidid glass for cach luss,
bilech doss dairi glaiss:
tánic sam. rofáith gaim,
gonit coin cuilinn caiss.

Canaid lon dron dord
díambi forbb caille cerbb,
súanaid ler lonn líac,
foling íach brec bedc.

Tibid grían dar cach tírm
dedlai lim fris-sil snom,
gárit coin, dáilit daim,
for-berat brain, tánic sam.

Finn MacCumaill, L'Estate è venuta, IX sec.




C'erano i fuochi, questo fine settimana, sotto il castello.
E il fumo scendeva giù fino a casa. Resina e legno. E violini, arpe, tamburelli. Un qualcosa di vivace e assieme infinitamente malinconico.
Mi sono seduta sul prato, sabato sera. Fra tante persone. E ho chiuso gli occhi.
Sarà colpa di Tolkien (finalmente l'ho iniziato!), sarà colpa del fatto che, ultimamente, ho voglia di immaginare. Non lo so.
Ma queste serate dedicate alla magia celtica mi sono piaciute. Molto.
Davvero molto.
Ho anche ceduto alla tentazione: una collana elfica.
Con un pendaglio elaborato attorno ad una pietra nera. Ce n'erano tanti, di colori. Ma io ho voluto il nero. Stava bene. E ques'inverno, in facoltà, mi ricorderà l'ultimo giorno d'Agosto.

Promemoria per me: cercare di rintracciare su Internet il sito di mitologia nordica e slava che avevo individuato qualche mese fa. La vedo dura...

venerdì 29 agosto 2008

Penne miracolose

L'Acchiappasogni King lo ha scritto in sei mesi. E tutto a mano. Più di seicento pagine con un editor vecchio come il mondo: la penna.
Me ne sono ricordata oggi, e sono andata a curiosare sul libro di simbologia che mi hanno regalato. Sotto che voce?

Penna è ovvio. E ho scoperto che significa ascensione, elevazione, animazione, ma anche crescita.
Viene dal latino, certo: pinna. E Il vecchio gioco pinne-penne è conosicuto: in fondo le Sirene sono diventate donne-pesce a causa di un possibile errore di trascrizione di un qualche copista distratto. E addio ad ali e zampe artigliate.
Compunque: la penna è una panacea efficacie per tutti i mali, e Teocrito diceva bene: il Ciclope ha trovato il rimedio ideale alle sue pene, ovvero l'arte.
Scrivere è un modo di esercitare l'arte. E poco importa che tu abbia tre premi nobel e qualche attestato letterario. Ma mi chiedo se è solo (ma non credo) autocompiacimento, o quasi una vera e propria necessità.
Zoroastro raccomandava di usare la scrittura per proteggersi da mali e pericoli.

"Con questa penna,
tu strofinerai il tuo corpo.
Con questa penna,
rinvierai la maledizione ai tuoi nemici
".

E di nuovo mi viene in mente King, e la sua confessione in explicit al libro: quei mesi segnati da forti dolori fisici, e la scrittura che porta altrove. E la consapevolezza, ovvia e insieme nuova, di dover ritrovare il gusto di scrivere con una penna.
Il mago ha la bacchetta magica; lo scrittore può fare magie con una penna?

Io penso di sì.

venerdì 15 agosto 2008

À la Mère






È delizioso restare immersi
in questa specie di luce liquida
che fa di noi degli esseri diversi e sospesi

Paul Claudel, 1910

lunedì 11 agosto 2008

Rassegna estate

[qualsiasi allusione è scherzosamente voluta]



C'è uno striscione bianco con una scritta rossa, verso Caldonazzo.

Estate campeggia a lettere sgargianti. Ci sono anche altre parole (festa di, concerto per, incontro di...e similia) che non ho letto. Un po' perhcè più piccole; un po' perchè è stata quella parola a catturarmi.


Estate.

Cosa vuol dire estate?

Mia sorella che ripesca la chitarra (e le corde sono sei! Non cinque, come sostengo io senza capirci niente. Il pianoforte, del resto, ne ha di più), le candele e noi che stoniamo (io!) fino a sera tarda. Il cielo bello terso per tutti i mesi e adesso, che è il periodo migliore delle stelle cadenti, mentre mi armo di telescopio e dò il via alla grande pulizia di filtri, adattotori e lenti, la notte si fa buia buia e piena di nuvole. Pazienza, allora. E' bello lo stesso.

Stendersi alle undici sul poggiolo, in camicia da notte, e senire sotto la pelle il caldo della ceramica. Andare in giro per casa a piedi nudi (tanto il raffreddore, se vuole, lo prendo lo stesso), rischiare di scivolare sulle scale e ritrovarmi a fare l'equilibrista a ben due millimetri da terra, sospesa sopra un baratro che è la stradina grigia girgia di sera percorsa sul filo dell'ombra di un cancello.

E rincorrere sotto i lampioni la mia ombra che si avvicina e si allontana, pestando per bene i piedi a terra quasi mi aspettassi di sentire male. E sentirmi sciocca mentre lo faccio e dire che, in fondo, non me ne importa niente. E anche Adriano Meis (al secolo il caro Fu Mattia Pascal) per una sera può finire nel ripostiglio dei miei pensieri, e restarsene lì con la mia abitudine a letterariezzare quasi ogni cosa.

Uscire alle dieci e pensare alla passeggiata, alla strda da fare, e ignorare i libri che si ammucciano e che, in inverno, alle dieci, inzia il terzo turno di studio, quello serale.

Passeggiare per il paese (rigorosamente deserto) e bere una bella cioccolata calda fumante. Perchè se io non bevo una bella cioccolata calda sotto il castello, d'estate, non credo di aver fatto vacanza^^

E approfittare di due minuti per un esteneuante torneo di ping pong fatto di niente e poi scoprire che ancora mi diverto a riesumare le Barbie e a giocarci come quando aveva sei anni. E Tucidide può occhieggiare finchè vuole dallo scaffale: uno squadrone di opliti lo posso comunque creare, fra Ken e similia.

E senitire la pelle del divano sulla pelle e ricordarmi di fare piano ad alzarmi se mi addormento in soggiorno, perchè incombe sempre minacciosa, dall'alto, la mia personale e moderna versione della spada di damoclea memoria: la finestra.


La mia estate non è nulla di particolare.

Non è viaggi, pazzie e storie da raccontare.

Ma mi va bene lo stesso.

Perchè posso fingere di non avere vent'anni. E di tornare bambina











giovedì 7 agosto 2008

Futuristi e impaginazioni

Con l'anno prossimo fanno cento.
Cento anni dalla prima pubblicazione de "Il manfesto futurista", di qulla serie di regole create da Marinetti che sono andate a capovolgere una vestito un po' vecchio e con qualche logorio qua e là quale era la visione ingessata del mondo. Molte idee che se ne vanno a braccetto con l'amore per la velocità (embrione della lotta claviniana di Perseo e Gorgò?), la tecnologia (aerei e automoblili infestano pagine e pagine, quando sulle strade i mezzi di locomozione più diffusi sono ancora le gambe) e la violenza.
Eh, già: c'è anche la violenza. Non che l'uomo se la dimentichi da qualche parte, per carità. Se le prime saghe della storia (fino alle prime fiabe che si possono ricrodare) presentano elementi violenti un motivo ci deve pur essere. Forse una specie di recondita attrazione verso l'autodistruzione e la messa in gioco di se stessi. L'uomo sembra l'unico animele dedito alla distruzione della propria razza, invece che alla conservazione. Con buona pace di Aristotele e del suo aforisma sulla socevolezza umana. Probabilmente qui c'è l'influsso di Darwin. Perchè se l'uomo è preso dalla spirale della selezione naturale Darwin non può mancare.
Tornando al Futurismo, c'è una cosa. Una "cosa" che si studia a scuola, sui banchi dell'ultimo anno, e che ammuffisce in un'idea sbiadita nella testa. Si decompone, lo si può ammettere tranquillamente. Perchè non interessa a nessuno, perchè di rivoluzioni ce ne sono state tante, nella Storia. Una in più o una in meno nella testa non cambia le cose. Forse perchè questa non è andata oltre i pochi anni, e non ha lasciato morti di sangue e brandelli di carne dietro di sè.
Ma di rivoluzione si tratta.
Eccome!
Che ha di tanto speciale?
Se sorvoliamo sulla strage della riga, sulla fucilazione sistematica della coniugazione dei verbi (deliziosa croce degli studenti, e non solo), sull'incoronazione a imperatore del sostantivo e del suo inseparabile amico in correlazione analogica , sul depennamento puntuale di punti, virgole e amenità della punteggiatura, non ha niente.
Se sorvoliamo su tutto questo e sulle altre regole che hanno retto la letteratura per quasi quattromila anni, ovvio.
E allora, forse, non è meglio fermarsi un po' anche su questa rivoluzione?
Su mestiere di scrivere c'è un bell'articolo sull'allineamento del testo.
Pacchetti, bandiere fluttuanti ed epigrafi. Tutti usati. Con rigore e con misura. Ma perchè?
Perchè un testo ufficiale deve essere giustificato, una poesia assomiglia a un panino sboconcellato (anzi, facciamo un biscotto: le briciole sono quelle paroline delle poesie moderne che saltellano fuori dall'ordine metrico e ti mandano in confusione) e per essere di impatto un titolo deve campeggiare, con tanto di tende sacco a pelo e fuoco di bivacco, in centro alla pagine.
Perchè è così.
E chi lo ha deciso? I Futuristi no di certo. Hanno abolito la linea retta continua segmentata giustificata e ordinata, loro.
Hanno detto: ho un foglio, una penna e la mia testa. E posso iniziare a scirvere dove voglio. In basso a destra? E vada per il basso a destra. E poi saltellare di qua e di là. Non fa mele stravolgere un po' anche l'ordine: non si inventa solo una trama nuova. Provate voi a riscrivere la storia di Cappuccetto Rosso (chi non conosce Cappuccetto Rosso?) partendo dalla fine. O dal centro. O dal lupo. Ecco: partendo da un povero lupo bistrattato e che finisce ammazzato, impalliunato o sventrato (alla faccia dell'innoqua favola per bambini) quasi sempre. Non cambia molto, alla fine. La storia resta sempre quella.
Ma provate a mettere prima il lupo, poi un cestino. Aggiungiamo qualche aggettivo, amalgamiamo con un cacciatore che compare prima della nonna e un bosco che decora il tutto. In fondo. Allora credo propria che la storia sia diversa.
Insomma.
Credo che si potrebbe riprendere in mano la lezione futurista. La prima.
E iniziare a provare a scrivere senza badare tanto a dove poniamo la penna (o il cursore). A destra, se ci va. O a sinistra.
E mettiamo grassetti, corsivi, sottolineature e parentesi. Non servono solo in matematica, le parentesi. I greci le usavano per espungere i testi. Adesso si possono usare per molto altro.
Non voglio sobillare la scrittura accademica.
Ma almeno nella narrativa (anche se amatoriale) si potrebbe tentare.

venerdì 1 agosto 2008

La giostra

Nella bussola gira l'ago

come fosse ai comandi di un mago.

Nell'universo gira la Terra,

dove vorrei si abolisse la guerra.

Nel cielo girano a mille le stelle,

forse han l'incarico di sentinelle.

Gira la ventola della miniera,

nell'orologio gira la sfera.

Nell'automobile gira il volante,

per evitare i muri e le piante.

L'elica gira nell'areoplano

che giunge presto in un paese lontano;

gira la giostra con i seggiolini

gioia e timore dei più piccini.


Ogni tanto basta una filastrocca senza un vero perchè, a far sorridere un po'. Una di quelle filastrocche sconclusionate, pesacata da un vecchio libro per le vacanza. Io me li ricordo ancora, i libri per le vacanze. Ce ne sono anche adesso. E sono tanti.

Il mio era con i personaggi Disney. E puntualmente lo iniziavo a Giugno per poi lasciarlo sonnecchiare fino a fine Agosto. Più o meno.

Non era male. Me lo portavo sempre dietro.

Ma poi. Poi c'era sempre di meglio da fare.

Però leggevo le storie e le filastrocche.

Come quella qui sopra.

E le giostre mi piacevano. In estate, anzi alla fine dell'estate, nel parcheggio davanti alla Filanda arrivavano sempre i cavallini. Sulla giostra, naturlamente.

Sono anni che non torna più. Sono anni che i cavalli infiocchettati, simili a bon bon che fanno sorridere, non corrono più sulle note di un carillon.


Adesso, c'è un'altra giostra.

Quella medievale. E di cavalli ce ne sono anche lì. Cavalli veri, questa volta. Non mi piacciono di più non mi piacciono di meno.

Sono comunque una parentesi di infanzia cresciuta.




domenica 27 luglio 2008

Chiudere il cerchio

Qualche giorno fa ho letto questo post sul blog di Lara.
La difficoltà di rendere il pensiero dei personaggi e in sè e per sè di non cadere nell'artificio dei dialoghi. Una bestia nera, insomma.
Il discorso diretto mi riesce sempre difficile.
Forse perchè manco di spirito e di battuta pronta. Ci metto un po' insomma, a trovare la risposta. Per questo, di solito, nelle storie adotto due opzioni: o discorso indiretto (più o meno libero) o flusso di coscienza (e qui i problemi di moltiplicano, accidnti).

Ieri ho finito Garasudo no Uchi. La prima storia a capitoli che concludo, del nuovo ciclo (il vecchio è quello dei cavalieri, ma si ferma con il 2004). Doveva essere veloce, e ci ho messo sette mesi. Non male^^ Soprattuto considerando i due anni per Un soffio di vita...

Comunque.
Adesso mi piace. Adesso sono soddisfatta. E domani so già che sarò di nuovo sul computer a cambiare e ricambiare; perchè mi sembrerà orribile. Maledettamente orribile.
In generale, comunque, mano a mano che procedevo, ho riflettutto su due cose, in particolare. Ed entrambe, di nuovo, sono legate ad alcuni post di Lara.

Uno è questo: le descizioni
Naya non è descritta. Praticamente mai. Nemmeno nella mia testa ha una sua figura definita. Naya è solo un nome che vive una storia. Una sorta di spersonalizzazione nominale, se possibile. Non sono ancora arrivata a livello di Sara Kane (se tralascio i mei frustula, ovvio. Ma quello è un altro discroso). Però si potrebbe provare. Personaggio 1; personaggio 2. O ancora meglio: solo 1 e 2.
Comunque. Naya non esiste. Se non come voce narrante.
E qui c'è il secondo punto.
La prima persona. E di nuovo Lara mi ha messo la pulce nell'orecchio/. Insomma: condivido bene con lei l'idea che scrivere in prima persona non è affatto facile.
Soprattutto se provi a scrivere un flusso di coscienza.

Me ne sono accorta. Ci sono andata a sbattere prorpio forte.
Con Naya, appunto.
Avevo scelto fin da subito di non descrivere i suoi pensieri. Sarebbe stata lei a parlare. A differenza che con gli altri personaggi. Ma mano a mano che scrivevo ( e incappavo nelle qustioni: adesso si alza, adesso sorride, adesso piange, adesso ride...) mi dicevo: lei parla, agisce e pensa assieme. Come faccio a renderlo?
Oddio, si può sempre ricorrere al solito stratagemma, del tipo:

"Lui mi dice che...E io gli rispondo che...
Mi siedo e ascolto; piango e lui..."

Lui. Io. Dice. Rispondo.
Va bene. Ma in un diario. Se io sto descrivendo in prima persona un fatto avvenuto (il passato non è un obbligo, sia chiaro). Ma se il fatto sta avvenendo? I egli dice, io rispondo non esistono nel pensiero.
Io non penso di rispondere e poi parlo. Io parlo e basta. E non mi rivolgo al mio intelocutore dicendo lui. Lui è un tizio che può essere a mille miglia lontano. Gli dò del tu.
Accidenti!
E' la stessa cosa per le azioni. Se voglio sedermi, non penso di sedermi e poi mi siedo. Lo faccio e basta.
Per esempio: devo raccontare in prima persona il mio pranzo.
Non so. Ma iniziare con : mi siedo a tavola e noto che c'è una tovaglia quadrettoni rossi e bianchi con qualche macchia di sugo qua e là. Prendo la forchetta alla mia sinistraa e il coltello a destra e taglio la carne che si rivela un po' troppo dura.

Non credo che qualcuno pensi così. Nessuno nota, in prim persona. Vede e quindi elabora subito. Ed elabora in modo personale. Oppure le forchette. Perchè mai dovrei dire sono qui o sono lì? Il loro posto lo so bene; lo impariamo quando inizaimo a fare la tavola da soli, no? E non credo che l'argenteria decida di punto in bianco di andarsene a spasso per la tavola. E la carne, poi. Ovvio che taglio quello che ho nel piatto.

Insomma: la questione che ho afforntato con Naya (senza riuscirci in modo soddisfaciente, però) è: come faccio a scrivere in prima persona senza descrivere? Il flusso di coscienza puro, insomma. Che faccia capire quello che sto facendo e dicendo come se lo si vedesse per immagini. senza cadere in quegli artifici teatrali che sono l'intercalare di vari dice, rispondo.
Che chiariranno anche, ma rompono del tutto la finzione narrativa della prima persona.

In conclusione: Naya è il primo tentativo (goffo e rasente il disastroso, temo) di trovare un mai personale soluzione al problema.

Se poi ci si mette King con il libro che ho letto...Ma questo è un altro discorso.

lunedì 14 luglio 2008

Memorie di una geisha

A me diceva che ero come l'acqua,
l'acqua si scava la strada
attravverso la pietra,
e quando è intrappolata,
l'acqua si crea un nuovo
varco.



Paraventi di riso; cipria bianca; labbra rosse. E kanzashi fluttuanti, kimono ricercati e complessi. Arte e grazie anei movimenti. L'ombra fuggevole di un mondo che, della perfezione inafferrabile, ha fatto la sua arte, la sua essenza.

Memorie di una geisha ripercorre fra luci e ombre, soprattutto nel gioco cromatico, nei contrati ora accesi che sfumano in tinte pastello, la vita di una delle più belle geisha: Sayuri Nitta. Il piccolo giglio.


Il passaggio dal mondo nascosto alla devastazione della guerra. La sottile differenza che è l'orgoglio di una geisha; quello che la distingue da una prostituta. L'abbrendistato lento e paziente; la raffinatezza di un arte che non è ventida di corpo, ma di movenze, di sottile gioco di seduzione, di abilità tranquilla e sorridente di offendere e conversare.


Il Giappone di inizio secolo negli occhi occidentali. E può sorprendere il fatto che la lettura sia abbastanza verisimile. Che, anzi, dia per scontate varie cose, lasciandole intuire. Sbattendo in faccia significati e simboli che possono gettare nella confusione, che possono passare sotto silenzio. Inosservati.

Incapiti.

I kimono che cadono sulla schiena. Il bianco di una youki-onna sotto i riflettori. Il trucco e i gesti improvvisamente rapidi, vorticosi che spaizzano contro il rosso centellinato della coreogrfia precedente. Parole che scivolano alle orecchie; altra lingua, altri significati.

Altra mente.

Una mente che non si può pretendere di capire; di invadere.

Giudicare dal punti di vista morale, di una morale nostra, è sbagliato. Toglie. Taglia. Smarrisce.


Peccato forse per la velocità della vita; peccato per il finale tronco rispetto al libro. Ma forse è meglio così. Rimane una sotria, una memoria che assomiglia ad una fiaba. Un scolorare nella memoria; fragile e indefinito come il mondo cui appartiene una geisha.




Lei si dipinge il viso per nascondere il viso,

i suoi occhi sono acqua profonda.

Non è per una geisha desiderare,

non è per una geisha provare sentimenti.

La geisha è un’artista del mondo che fluttua;

danza, canta, vi intrattiene, tutto quello che volete.

Il resto è ombra.

Il resto è segreto.




giovedì 10 luglio 2008

Lunghe attese

Ieri ho inserito su Efp una nuova vecchia storia.
Una fanfiction del fandom dei Cavalieri. Nulla di straordinario, ma mi sono fermata a pensare. Un attimo.
E quando lo faccio, poi i pensieri impazzano.

Dunque.
I Cavalieri. Sono stati il primo manga /anime su cui abbia mai scritto qualcosa. E va bene fin qui. Tutti i fanwriter partono così. La storia non piace molto, ha deluso (come con il finale di Inuyasha per intenderci), attira un personaggio particolare.
Ho letto da qualche parte che per fanfiction si intende quella degenerazione(?) dello scrivere, in cui dar sfogo alle proprie frustrazioni inappagate. Soprattutto quando si ha dai tredici ai diciotto anni.
E allora impazzano amikette con trame labili, personaggi stravolti e soprattutto nuove entrate che calamitano attorno a sè tutta la storia (le famose Mary Sue). Ora: non tutto è brutto; non tutto è bello. Prendetala come dilagante premessa generale (molto generale; il discorso su cosa sia esattamente una fanficiotn sta diventando sempre più complicato).

Insomma. Quello che di cui mi sono accorta, ieri sera, è che ci ho messo sette anni, prima di creare (anzi: concepire proprio) la possibilità di dar vita ad un personaggio mio. E non nel fandom dei Cavalieri.
Non perchè sia sempre assolutamente e pienamente soddisfatta di tutto, in loro. Ma non so. Li ho sempre visti come un universo chiuso. Da non rovinare con intromissioni diverse. Ho sempre preferito l'approfondimento psicologico, per loro. Giocare in casa, ecco.
Muovermi fra personaggi fatti e definiti. E provare a girar loro attorno. A vederli da nuove, diverse angolazioni.
Non che il risultato debba esser buono o sufficiente. Mi sono chiesta il perchè di questo approccio.

Creare un personaggio non è facile. Non è mai facile; soprattutto se lo si inserisce in un universo già ben collaudato. Alessandra, in questo senso, è stata e continua ad essere una piccola sfida. Perchè è il centro di una storia di cui NON voglio sia il pilastro cardine. Muove le cose e non le risolve; si inserisce nella vita di Sua Grazia e non la cambia, non più di tanto almeno. Sesshomaru resta demone, resta indifferenza verso i ningen.
E allora non so cosa diventerà.

Però. Però ritroniamo, o divago troppo.
Insomma: ci ho messo tanto a decidermi a provare (e quindi devo ancora migliorare, è ovvio! Nessuno riesce mai al primo tentativo) un original caracter (inglese! Diventrà un uncubo, lo sento XD). Il risultato, primo, è opinabile.
Ma non mi fermo su questo, adesso.

Adesso mi chiedo: perchè?
Va bene: i Cavalieri li vedo chiusi. Ma non è sufficinete.
Penso che non mi sentissi pronta. Non che adesso lo sia più di allora, ma prima o dopo dovevo provare.

martedì 8 luglio 2008

Divagare o riempire

Due giorni fa pioveva. anzi: diluviava.
E io ne ho approfittato. Stephen King. Il primo libro che abbia mai preso in mano, di questo autore.
E come mio solito sono partita dalla fine. Dall'ultimo capitolo e dalle note conclusive. Perfetto. so come finisce. Ma non ho la più pallida idea di come ci si arrivi, a quella fine. Niente.
Di solito, è il mio divertimento.
Cerco di costruire io, la trama.
Cerco di capire i procedimenti. Ma qui. Qui mi inizio a muovere in un mondo che non è mio. Che non conosco ancora.
Però, mi sta piacendo. A pelle.
Anche se, ad esser precici, sono partita da metà. O dalla fine.
Insomma: ho preso un libro che sembra la continuazione (ho il fortissimo sospetto che lo sia davvero) di un altro libro. O forse il suo epilogo. Ma non importa.
Intanto questo. Poi il precedente. O il seguente.
Se davvero essite.

Invece, mi sono accorta che esistono vari tipi di scrittori.
E King, per me, è uno scrittore per digressioni. O io, almeno, ho deciso di battezzarlo così.
Perchè racconta per digressioni. E non è facile. Affatto. Sono tanti a farlo, e poi ti ritrovi a dover tornare indietro di trenta pagine, perchè ti sei dimenticato qual era il filo portante, della storia.
Qui no.
Qui tutto sta al suo posto.
Perchè sono digressioni utili. Non che ritenga le digressioni inutili; ma dipende da come l'autore le usa. Ecco: io metto una digressione in una storia. Perchè lo faccio? Per riempire pagine?
Temo che allora posso benissimo cancellare tutto. Digressioni riepitive non ne servono, in uno scritto. Mai.
Aria fritta direbbe una persona che conosco.

Ma digressioni che riempioni i silenzi, quelle sì.
Quelle servono. Perchè danno voce ai pensieri della testa.
E' un po' sciocco, ma in realtà la nostra vita non è mai zitta. Forse non parliamo, però pensiamo.
E questi sono i nostri riempitivi, le nostre digressioni in fieri.
E nella narrativa, come si fa?
Si descrivono i movimenti, si elencano azioni, oggetti, colori, tecnicismi?
Un modo è quello di pensare. Un modo è quello di King.

Non è l'unico. Non credo proprio.
Però è un metodo che non mi dispiace.
Affatto. Anche perchè lo fa bene.

sabato 5 luglio 2008

Opera d'arte (?)

Sabato.
Non succede quasi mai nulla, di sabato.
Ho aperto Efp quasi per noia. E ho scoperto il nuovo capitolo di Shashee. Ormai ne sono convinta: una storia che delizia. Un sorbetto al limone.
Questa notte ci penserò su, e domani cercherò di scrivere il commento.
Assime all'altro.
Cavoli. Cavoli.
La storia di Laurie è troppo bella per sminuirla così.
Uffa!!!

Comunque.
Trento di notte è bella.
Luminosa. Con il cielo di una sola tinta e la foschia (inesistente) attorno alle montagne. Inquinamento luminoso. Non c'è nemmeno una stella.
In compenso, in Piazza Duomo, è pieno di lavatrici.
Sopra a dove passava la roggia. E se chiudi gli occhi e prendi un bel respiro, la senti ancora.
C'è l'acqua sotto quella astra di marmo (o è porfido?).
L'acqua che corre verso l'Adige.
L'acqua degli annegati, dei panni lasciati a mollo con la cenere calda e l'aceto, e di quelle lavatrici.

Un'opera d'arte.
Recita il foglio, quatidiano, appeso sul coperchio.
Non ho ben capito cosa voglia rappresentare. Certo. Ho letto la spiegazione.
E continuo a non capire.
Un tuffo (restiamo nel campo liquido, và) nel passato? Una crociata ecologista?
Un modo come un altro per attirare l'attenzione?

Mah!
Resta il fatto che mi sono dviertita a osservare formichine bipedi affacendarsi attorno alle lavatrici di Piazza Duomo.
E il Nettuno sorride sornione.
Che si faccia beffa della nostra piccolezza?










Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.


E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.


Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.
Pascoli Giovanni, Lavandare, in Myricae

venerdì 4 luglio 2008

Dietro una fine

Inuyasha è finito. Da un mese ormai.
E la fine, l' heppy endingi (si scriverà così? Odio sempre di più l'inglese), non ha soddisfatto. Praticamente nessuno.
Ci siamo divertiti a riprovare, a riscrivere un finale piatto e, in fondo, fin troppo banale. Ne sono uscite mille storie. Molto belle.
Divertenti, sarcastiche, tragiche.

E intanto, conto i mesi. Perchè mi sono accorta che, in fondo, nove mesi sono pochi.
E fra nove mesi esce Esbat.
Sono curiosa. Non lo nego.
E trovo un po' di interrogativi e di crisi essitenziali nel blog di Lara.
Come la discussione sulla prima e la terza persona. Qual è meglio usare, quale è più facile usare? (sempre che si possa usarlo, l'aggettivo facile).
Non lo so.
Con Naya sto impazzendo.
Seriamente impazzendo.
E scoprendo la complessità dell'IO.

Insomma: rendere il pesniero e il parlato assieme, senza accartocciarsi in inutili e falsi verbi fraseologici, senza perdersi in descrizioni che non faremmo mai se fossimo noi a parlare, veramente; e insieme restare esaurienti.
Non credo che ci riuscirò mai davvero.
Già adesso non so quanto possa ritenere pseudosoddisfaciente il risultato.
Ma tant'è. Intanto, finisco.
Poi, si inizia a scrivere.
Seriamente.

E' buffo, ma credo proprio che sia così: a scrivere si parte dalla fine. Quando hai il tuo bel tema, testo o quello che sia, fra le mani. Pronto alla consegna. E allora. Allora prendi in mano la penna rossa, e inizia a scrivere. Non a correggere. Quello verrà dopo. Quello verrà quando ti deciderai a dire "ho finito".
Allora, potrai correggere.
Ma scrivere. Scrivere inizia davanti al lavoro finito.
Al canovaccio che si rivela essere la bella copia. E la brutta copia è una scaletta un po' ribelle, che ti porta dove forse non ti saresti aspettato di arrivare.

Non so.
Naya per prima. Poi vedrò.

sabato 21 giugno 2008

Litha o del Solstizio d'Estate







Sia glorificata la Madre e la Sposa,



dea della Vita e dell'Amore,



maestra di conoscenza e magia.



Non c'è parte del mio corpo che



non sia degli dei.



Discendi, oh Dea, su questa tua figlia.















Ho sempre amato il giorno del mio compleanno.
Intendendo proprio la data. Il 21 di Giugno. Il solstizio d'estate.
Ho tantissimi significa reconditi, in tutto il mondo.

Nel pensiero neopagano, la festa si chiama Litha una parola che racchiude un crogiulo di valenze e simboli.

Litha corrisponde al fenome stagionale del solstizio d'estate, ed è esattamente speculare per caratteristiche e valenze al solstizio d'inverno. Di nuovo, il sole si ferma, ma questa volta a svantaggio dell'Oscurità, che si vede relegata ad una piccola parte nel giorno più lungo dell'anno.

La parola deriva probabilmente da Ligo, Ligo, un ritornello cantato dalle popolazioni nordiche durante la ricorrenza. Gli antichi sassono, infatti, accendevano falò e ballavano nelle foreste commemorando la felicità per il Ritorno della Luce, intrecciando corone e addombando le soglie delle case con rami di betulla e fiori benaugurali. Inoltre, si brindava con idromele, una bevanda alcolica a base di miele e acqua fermentata; in Scozia invece si avviavano giochi e gare artistiche, e si celebrara lo spirito del grano, John Barleycorn, bruciando fantocci rappresentanti la sua forza infuocata e ritornata.

Mentre in Yule il Re Agrifoglio vince contro il Re Quercia, in Litha le sorti del duello si capovolgono, ripristinando l'equilibrio dei contrari sulla terra. Una tradizione comune radicata in tutte le popolazioni è la raccolta delle erbe che si credono benedette dalla ruggiada magica di Giugno. E' il caso delle usanze della Festività di San Giovanni, festa cristiana che si è sovrapposta a Litha per eliminarne il culto; la ruggiada ha la parte dominante in questi rituali, come ingrediente principale della magia stagionale.

In Giappone si celebra la festa di Tanabata o festa del Settimo Giorno, rallegrandosi dell'unione del dio Hikoboshi e della dea Orihime. Secondo la leggenda un giovane vaccacio (secondo altri un toro) scorse casualmente delle dee che si bagnavano in un lago e spinto da un suo amico decise di rubar loro le vesti. Le fanciulle, scoperto il furto, mandarono la sorella più giovane e bella, Orihime, alla ricerca dei kimono, e il pastore intenerito restituì gli abiti, ma avendola vista nella sua nudità fu costretto a sposarla. Il matrimonio, sorprendentemente, si rivelò felice: Hikoboshi dimostrava una grande dedizione alla famiglia, mentre Orihime si occupava della casa con amore fervente. Tuttavia, la dea del cielo impose il ritrono di Orihime nel suo mondo, irritata che un essere immortale avesse sposato un mortale. All'opposizione dei due innamorati, la dea dispose in cielo un enorme fiume che li avrebbe divisi per sempre, la Via Lattea; successivamente colta da rimorso, permise ai due amanti di inconrarsi una volta all'anno (il settimo giorno del settimo mese del calendario lunisolare).

I protagonisti del mito rappresentano il Triangolo , costellazione visibile nel cielo estivvo, formato dalle stelle Vega, Altair e Daneb, con le prime due che solitamente sono divise dalla Via Lattea, che però sembra spostrsi in questo giorno, facendo rincontrare i due amanti, mediante un ponte di gazze.
Secondo la tradizione, in questo momento magico i desideri possono diventare realtà, per cui vengono scritti in forma di poesia su strisce di carta, appese poi a rami di bambù e bruciate allo scoccare della mezzanotte. Una caratteristica, è la creazioni di composizioni cartacee simili agli origami e regalati come simbolo di buon auspicio.

In Egitto viene festeggiato Wadjet, la dea serpente che protegge il Faraone e la sua famiglia. La festività si concentrava sul suo aspetto solare e materno, venendo associata a Bastet e Mut, la Grande Madre. Il serpente aveva un valore esoterico rilevante in Egitto, in quanto rappresentazione zoomorfa del Sole (cobra) e simbolo di resurrezione.
Wadjet, secondo alcuni recenti studi, è una delle divinità più antiche del periodo egizio predinastico (Paleolitico, 3100 a. C.), guardiana e governatrice del Basso Egitto prima dell'unificazione. Il magico e regale ureo che sormontava la corona dei Faraoni era una rappesentazione di Wadjet, indicando la forza del sovrano e la sua discendenza da Ra.
E proprio il dio del Sole, secondo la tradizione, sarebbe nato il giorno del solstizio d'estate, dando così avvio anche al nuovo anno solare.

Nell'antica Roma si festeggiava il dio Fros, corrispondente maschile di Fortuna; i mercanti esponevano al merce migliore e invocavano la protezion degli dei.

In Grecia il testimone stagionale passava da Dioniso ad Athena. Durante la plunteria (viaggio sacro) la statua di Atena Polias (della città) veniva condotta presso un corso d'acqua e putificata, il peplo era rimosso assieme ai gioelli e durante il tragitto venivano offerti fichi fresci, portati da fanciulle sacre in cesti consacrati. Le Lautrides, donne scelte per officiare il rito e uniche con il permesso di vedere la dea nuda, durante il bagno rituale pregavano per la città, sguranita temporaneamente della sua protettrice e quindi possibilmente soggetta a pericoli.

Litha è indubbiamente il sabbia più magico ed affascinante dell'intera ruota dell'anno. Le fate si manifestano suall terra ballando attorno alle campanule, la luce solare forte del suo rinato potere riscalda la Natura sorridente e rigogliosa.

Nella teologia wiccana è il momento del trionfo definitivo della Luce, la Coppia divina ha raggiunto la sua massima espressione e manifesta l'equilibrio cosmico tramite l'effervescenza dell'estate. Gli antichi popoli nordici consideravano Litha come la realizzazione delle loro suppliche, in quanto credevano che l'estate inizaisse a Beltane e a Litha si manifestasse la sua potenza infuocata. La Dea diventa la Madre, la Gravidanza, e si prepara la prossimo inverno perpetuando eternamente il ciclo stagionale.





Ballo sul Grembo della Dea,
ballo sul Calderone della Vita,
benedicendomi con il tocco di questa
acqua consacrata mentre il Sole,
Signore della Luce, arriva nella sua forza
e nel segno dell'Acqua della Vita.





venerdì 20 giugno 2008

Una passerella deprimente

Lo studio: strumento per costruire la propria libertà,
educazione
dell'ingegno e della creatività al lavoro,
ma soprattutto occasione
privilegiata di capire la vita.

Enrico Palandri





Un errore può accadere.
Una parola che salta; un accento dimenticato; un numero scritto male. Nessuno ci presta veramente attenzione. Si strizzano gli occhi, si arriccia il naso; una scrollata di spalle e si va avanti. Archiviato. Fra i ricordi un po' amari un po' divertenti. Fra quei pensieri da rievocare dopo anni. Magari davanti ad una pizza, con qualche ruga che una volta non sapevi cosa fossero e la voce roca dal fumo di troppe sigarette.
Ricordi, appunto.
Un errore ci può stare. Nessuno è perfetto, nemmeno i computer (tanto più che siamo noi a digitare). E' già accaduto, in passato. E. probabilmente, accadrà ancora. Nulla di sconvolgente. Nulla di anormale.
Ma quando l'errore non è semplice svista, meglio è una di quelle sviste che si possono tranquillamente definire, senza timore di esagerare, "madornali"? Ci si arrabbia, certo. Ci si sente presi in giro.
Ma ancora si può accettare. Si può...sopportare. Ci si rifà; c'è la seconda possibilità, il muro da scavalcare.
Se però, alla fine, in quella busta chiusa, sigillata, c'è un foglio pieno di strafalcioni, di mancanze, di distrazione, la rabbia non ha neanche più senso. C'è amarezza, delusione, sconfroto.

Maturità 2008.
Prima tema: Italiano.
Per rompere un po' il ghiaccio. Prendersela con Internet che ha gettonato la prosa, che ha sbandierato Svevo e Pirandello dopo quattro anni di poesia non serve a molto. Sono semplici pronostici. Ci si diverte a provare a indovinare. Come quando si va all'ippodromo e si prova a capire quale cavallo taglierà per primo il traguardo. Puoi non aver puntato nulla, ma ti piace provarci lo stesso. ti piace accendere l'adrenalina della sfida.

Montale. Va bene. Può andare. Programma dell'ultimo anno; seconda volta in cinque anni (maturità 2004, cinque includendo quella in corso N.d.R), ma anche Dante si è ripetuto due volte con intervallo di un solo anno. Sì: va bene.
Poesia: da Ossi di seppia, prima raccolta. Bene: quella che, forse, viene maggiormente affrontata, sviscerata. Eppure, si è rivelata una trappola. Una stupenda trappola, forse inconsapevole, che sembrerebbe una barzelletta se non fosse la tragica, sconcertante verità.

Tralasciando l'errore disdicevole e da matita blu contenuto nella breve nota bibliografica (Montale ha avuto un iniziale periodo influenzato dall'ermetismo?), la poesia, di per sè ricchissima di bellissimi spunti, si vede affiancare una serie di domande interpretative che dire imbarazzanti è riduttivo. E i ragazzi si lanciano in pindariche prove di identificazione di elementi che lascino intravvedere eteree donne-angeliche, supportano tesi di salvezza e consolazione di figure evanescenti che si vedono rivolte aggettivi al maschile (sempre considerando che davvero si possa parlare di consolazione nella poesia di Ossi di seppia, almeno della stessa consolazione che traspare con l'avvento delle donne angeliche di dantesca memoria), rincorrono simboli e figure di cui sono chiamati a ricercare il significato.

Dov'è l'errore? Ma semplicemente nelle domande poste. Per il fatto, banale, che la poesia proposta è una delle poche, se non l'unica, che Montale dedichi ad un uomo! Ma naturalmente, la dedica, sempre ben presente nelle edizioni per precisa volontà dell'autore (A K., dal cognome di Boris Kniaseff, ballerino russo incontrato da Montale e dedicatario della poesia), è stata omessa per gentile concessione. Meglio sorvolare sulla pietosa assenza di rispetto per il testo.
Nulla di sconvolgente, drammatico o con valenze ambigue che avrebbero potuto far storcere il naso a qualche puritano. Semplicemente, Montale fra le tante immagini della sua prima poetica che potevo costituire l'anello che non tiene, ha inserito, riconosciuto meglio, la danza. E un ballerino, il dedicatario della poesia appunto.
Forse si poteva parlare di salvezza, ma certamente non di Clizie, Volpi o altre donne angeliche imperversanti nel testo proposto e del loro ruolo consolatorio.

Primo errore, quindi. Perchè definire svista alcune gaffe che un conoscitore medio di Montale dovrebbe sapere è un'offesa all'autore.
E se non bastasse, basta scorrere un altro po' i titoli per ricaderci. Nulla di così catastrofico, questa volta, certo, ma pur sempre un errore. Il Galata morente del tema artistico letterario è una copia romana di un originale ellenistico, probabilmente in bronzo, non una statua romana. Va bene: una sottigliezza, una pignoleria. Ma non si richiede sempre la precisione, l'attenzione ai ragazzi?

Giovedì 19 Giugno
Seconda prova: tema di greco (posso parlare di questo per conoscenza della lingua)
Luciano. Codice etico per lo storico, paragrafo 41.
Si inizia. Tempo: quattro ore.
E già si trova il primo errore: mancano tre parole. Va bene. Già capitato (maturità 2004; la versione era di Platone). Procedere. Altro errore: un "ti" perso per strada. E poi spiriti che fanno gli spiritosi con capriole fastidiose; accenti che saltano e...
Si continua.Totale: sei errori accertati (un settimo passiamolo sotto silenzio, come sbavatura della fotocopia; anche perchè un punto in alto, lì, proprio non avrebbe avuto senso).
Risultato? Ragazzi costretti a rendere e riprendere in mano la traduzione, e conseguente crisi da traduttore in una sede che non è proprio quella indicata per farsi cogliere da dubbi e problemi esistenziali sulla qualità della propria preparazione.
L'ispettrice è stata rimossa dal suo incarico; e il ministro dell'istruzione ha nominato il sostituto. un provvedimento che andava preso, ma che ha il sapore della classica toppa riparatrice. Per salvare, se non la dignità, almeno le apparenze.
Perchè su quelle prove, gli ispettori, ci dovrebbero lavorare da Gennaio. E se un qui pro quo è passabile; se una parola saltata o uno spirito che si è volatilizzato sono inconvenienti accettabili, non resta molto da commentare su cadute simili. Specialmente in virtù del fatto che un esame di maturità non si improvvisa dall'oggi al domani.
E non tanto per la magra figura fatta dai responsabili, quanto piuttosto per semplice rispetto. Verso ragazzi che devono affrontare la prima vera prova seria della vita scolastica; verso persone che si sono sentiti ripetere per cinque anni regole, critiche, esortazioni alla precisione e all'attenzione, e si ritrovano defraudati della dignità della serietà.
Errori se ne possono fare. Se ne continueranno a fare. Ma questi errori, concentrati in una sola maturità, in numero così elevato, lasciano molto da pensare.
Sull'esempio che viene dato, che ci viene dato.
Perchè saranno anche i diciannovenni a dover affrontare quegli scritti, ma ogni anno, in quei quattro giorni, siamo anche noi a rifare la maturità, a riaffrontare una prova. Più o meno consapevolmente. Ma se questi sono i risultati...Non c'è nemmeno la rabbia o la delusione. Solo una stanca rassegnazione.
______________________________
Perdonate lo sfogo e il ritardo nel farlo, ma mi sono decisa solo adesso. All'ultimo.
Perchè fino all'ultimo non volevo crederci. Non potevo crederci.
Mi scuso anche per aver riferito solo, nella seconda prova, del tema di greco, ben sapendo dai telegiornali della presenza di altre perle in ulteriori prove. Non avendo, soprattutto per inglese, la possibilità di verificare direttamente, lascio a voi la riflessione.
Perchè è solo questo che volevo, vorrei, proporre. Una riflessione.
Su quello che si chiede, che si pretende, e come poi, in un attimo, ci si possa sentire presi in giro.
Alla vostra cortesia

sabato 14 giugno 2008

Perdersi


E siedo sul bordo

della mia vita.


Davanti a un salto

che forse farò.


Con il ricordo di uno sbaglio

immenso.


Mentre l'aria mi porta via

e il corpo si accortoccia.


Lontano. Distante.

Smarrito.


Mi resta questa consapevolezza

amara:


ho sbagliato.

venerdì 13 giugno 2008

Solitude




Au clair de la lune, mon ami Pierrot
Prête-moi ta plume,
pour écrire un mot.
Ma chandelle est morte, je n'ai plus de feu.
Ouvre-moi ta porte, pour l'amour de Dieu.


Au clair de la lune, Pierrot répondit
Je n'ai pas de
plume, je suis dans mon lit.
Va chez la voisine, je crois qu'elle y est
Car dans sa cuisine, on bat le briquet.


Au clair de la lune, l'aimable Lubin
Frappe chez la
brune, elle répond soudain
« Qui frappe de la sorte ? », il
dit à son tour
« Ouvrez votre porte pour le Dieu d'Amour »


Au clair de la lune, on n'y voit qu'un peu
On chercha
la plume, on chercha du feu
En cherchant d'la sorte je n'sais c'qu'on trouva
Mais je sais qu'la porte sur eux se ferma.



In latino, maschera si dice persona.

Sono sempre rimasta sorpresa di questa etimologia. la consapevolezza che, su un palco, non si è sè stessi, ma ci si trasfigura in altro. In un personaggio che è tutto quello che si vuole.

E fra le maschere, quella che più mi affascina è Pierrot.


E' strano. Solitamente, alla parola maschera si associa il carnevale, il riso e l'allegria. Si sente profumo di grostoli (o chaicchere), il colore dei coriandoli e la raffinatezza di Venezia. Con carnevale si pensa agli scherzi, all'allegira, quasi una festa dei folli.


Pierrot no. Pierrot è la maschera della vita. E la adoro per questo.

Con larghi pantaloni di lucida seta bianca, ampio colletto, lunga casacca guarnita di grossi bottoni neri, papalina sul capo, il volto pallido. La piccola bocca rossa e un'espressione triste. E una lacrima. Quella sola lacrima che scende sulla guancia. Nera.

Nera come il rimpinto, come il peso della consapevolezza, come l'abisso della solitudine.


Pierrot è stata la prima maschera che ho indossato, e che forse continuo a sentirmi addosso. Molto romantica, con quell'aria da innamorato malinconico e dolce. Eppure, così vera.

Perchè nasconde l'essenza. Pierrot è la maschera del dopo spettacolo. Eì la faccia triste e un po' amara, gli occgi rassegnati e consapevoli dell'uomo che ha appena finito di far ridere. Del pagliaccio e del clow che hanno fatto del sorriso la loro dannazione.

Qualche tempo fa, mi chiedevo perchè il clow potesse far paura.

Adesso, penso di averlo capito: con la sua bocca larga e sorridente, con la sua ostentata e impossibile allegria è l'incubo di una felicità e leggerezza che non esiste. E il bimbo ne ha paura. Perchè sa che è un fantasma, un mostro, un qualcosa che non è normale.


Preferisco Pierrot.

La sua relatà un po' disullusa e semplice; quella lacrima sola e consapevole. Quello sguardo che non smette di sognare, ma non si illude che si possa concretizzare anche il più semplice dei pensieri.


Mi viene in mente Luci della ribalta.

Da guardare. Sicuramente.

Un Pierrot senza maschera, cerone e vestito. Ma con la stessa malinconia e solitudine della vita.

venerdì 6 giugno 2008

Rosso

In latino "rubens", il colore rosso è sinonimo di colorato. È il primo colore dell'arcobaleno che i neonati imparano a riconoscere, il primo a cui tutti i popoli hanno dato un nome.È il colore del movimento e dell'attività .La luce rossa è infatti quella con un intervallo di lunghezze d'onda più ampio e per tale motivo le sue vibrazioni possono avere un effetto stimolante.Il rosso è il colore che può muoversi più rapidamente trattenendo legato a sé lo sguardo. E' stato dimostrato che l'esposizione al rosso accelera i battiti cardiaci e stimola la produzione d'adrenalina. Il rosso è stato abbinato a Marte, il dio della guerra e il pianeta rosso, per la sua natura aggressiva e per la sua associazione al colore del sangue. Il rosso è simbolo del cuore e dell'amore, del dinamismo e della vitalità, della passione e della sensualità, dell'autorità e della fierezza. Nell'arte paleocristiana si dipingevano di rosso gli arcangeli e i serafini.


Rossi:




  • un papavero che declina


  • un carillon un po' barocco


  • una bomboniera sgualcita


  • la bocca di una bambola appassita


  • un ombrello nella nebbia


  • i petali di un gardenia morta


  • la luna di un sogno

A voi continuare...

mercoledì 28 maggio 2008

Lavori in corso!



Sto preparando una piccola pazzia.
Anzi. Mi sono decisa a pubblicare una vecchia pazzia.
Il corso di html dell'università si sta rivelando utile a qualcosa, finalmente.
Cosa ne uscirà? Mah! Non ne ho idea.
Intanto, proviamo!

martedì 27 maggio 2008

Fantasia



« Fantasia rappresenta la nostra avventura più eccitante.
Finalmente abbiamo trovato un modo per utilizzare nel cartone
animato la grande musica di tutti i tempi e l'ondata di nuove idee
che essa suscita.
»

Walt Disney






Il video della Danza Cinese

http://youtube.com/watch?v=ddTBeNv9PwQ&feature=related




La dolcezza un po' infantile di questi funghetti che ripresentano la Danza Cinese de "Lo Schiaccianoci" di Tchaikovsky è un piccolo capolavoro di animazione. Sopprattutto il piccolo Hop Low, che non riesce a stare al passo degli altri, esibendosi quindi in una divertente interpretazione personale del brano musicale.


Per riflettere come anche il serio, tradizionale, inquadrato classico possa diventare sorriso e leggerezza.

lunedì 26 maggio 2008

De la follia



Mi hanno chiamato folle;
ma non è ancora chiaro se la follia
sia o meno il grado più elevato dell'intelletto,
se la maggior parte di cio che è glorioso,
se tutto cio che è profondo non nasca
da una malattia della mente, da stati di
esaltazione
della mente a spese dell'intelletto in
generale.


Edgard Allan Poe




Follia.

Secondo Freud, è la rottura del sottile confine che separa io e super-io; il prevaricare dell'istinto sulla razionalità. Per dirla in modo nietschano, l'esplodere del dionisiaco in un mondo dominato da una realtà apollinea.

E' una chimera, la follia.

Il sogno di ogni uomo sano.



Qualunque cosa dicano di me comunemente i mortali – non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca anche dai più folli – tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli dèi e gli uomini. Non appena mi sono presentata per parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati di non so quale insolita ilarità; d'improvviso le vostre fronti si sono spianate e mi avete applaudito con una risata così lieta e amichevole che tutti voi qui presenti, da qualunque parte mi volga, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepente degli dèi d'Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se foste tornati allora dall'antro di Trofonio.


Aveva ragione Erasmo da Rotterdam. Aveva ragione che l'unica salvezza è impazzire. Perchè solo un pazzo rovescia la società, solo un pazzo ha il coraggio di gridare quello che l'ipocrisia mette a tacere.

E in fondo, anche noi siamo folli. Dei pazzi che fingono di non vedere, di non sapere, di non sentire. Ignorano la pazzia di rifiutare di esser pazzi.

Un pazzo non di preoccupa. Non lo sa.

E vive completamente.


E noi?

Noi diciamo di essere normali.

[Come se la normalità esistesse]


Noi ci barrichiamo dietro i nostri rituali quotidiani.

[La follia del ciclico ripetere]


Noi condanniamo.

[E siamo i primi a subire la condanna]


Perchè, rpobabilmente, in fondo, i veri folli siamo noi.

Che ci rifiutiamo di accettarci per quello che siamo. Che diciamo di esser colti, perchè oggigiorno non si può essere ignoranti. Perchè apprezziamo l'eccesso e lo sbaglio, perchè così è la convenzione. Perchè non vogliamo smettere di ubriacarci di pensieri fatti e finiti, comodi e veloci.


Perchè abbiamo perso l'abitudine di riflettere. E usare il nostro cervello.

E allora, davvero, siamo folli.



La sapienza puù giovarsi, seppur

indirettamente, de la follia, al fine di

rimettere in questione se stessa.


Carl G. Jung






domenica 25 maggio 2008

Coup de théâtre




Un premio giustamente meritato.
La degna, naturale conclusione
di una storia che è
un viaggio stupendo.
Crudo, relistico e viscerale;
nella mente e nello spirito.
Un cammino da gustare.

All'autrice, la mie più vive congratulazioni.

Perchè te lo meriti.



sabato 24 maggio 2008

L'ultimo eroe romantico




Non sono nessuno per giudicare;
so soltanto che ho un'antipatia innata
per i censori.

Corto Maltese




Alto un metro e ottanta già a quindici anni (si sarebbe però fermato a quella statura) bruno, con zigomi alti e labbra spesse, un anello all'orecchio sinistro, Corto Maltese aveva un'aria piratesca e romantica che piaceva a tutti. Del suo sangue anglosassone non c'era traccia fisica evidente. Tuttavia la calma, il senso dell'umorismo, l'ironia esercitata non tanto nei confronti del prossimo quanto nei propri confronti, rivelava che Corto Maltese era anche figlio della convenzione britannica. un uomo d'azione e un bravo marinaio.Sul palmo sinistro della mano ha ancora la cicatrice che indica una falsa linea della fortuna. In realtà, di fortuna ne ha avuto poca. Le cose che conquista gli sfuggono dalle mani così regolarmente che si ha il sospetto che sia proprio lui a lasciarsele sfuggire apposta. In realtà, l'unica cosa che gli importi è di recitare una parte nel mondo dell'avventura.


Per Corto Maltese eroismo non significa riuscire a vincere, farcela sempre da solo contro tutti, aver ragione del mondo e imporre le proprie leggi. Per Corto Maltese la cosa importante è minimizzare il senso di ogni vittoria e di ogni sconfitta (poche), e imporre la propria personalità; il saper rispondere a tono anche nelle situazioni estreme.


Il suo aplomb è il risultato della sua culturam del suo giorovagare per il mondo, dell'elaborazione della conoscenza, delle sofferenze vissute. Ecco la sua grandezza: Corto Maltese appare tale perchè è tale, e appare grandissimo, bello, sicuro, romantico. Una sorta di Dio o di supereroe interiore, che trasforma la debolezza in virtù, perchè questo è un mondo che comunque non dà vittorie. Poi, è il protagonista dell'attesa, degli appuntamenti mancati, delle scommesse vinte e non riscosse, degli amori rimpianti.


Dovunque vada qualcuno lo conosce o si fa riconoscere, e tutti, nemici veri o presunti e amici ne hanno un grande rispetto. E' pronto a qualsiasi avventura per curiosità o per caso, distaccato, superiore, disilluso, solo con qualche rimpianto da scrollarsi di dosso o con cui convivere. Non sarebbe possibile, altrimenti, essere fatalisti come Corto Maltese nei confronti del pericolo.

La sua è un amancanza di paura razionale, quasi filosofica, forse sovrannaturale. Esce sempre indenne da ogni pericolo con uno sforzo relativo, quasi per troppa sicurezza.


Forse è solo un'idea, un fantasma che si aggira per il mondo; forse il suo giovane corpo nasconde l'anima di un uomo che ha vissuto troppo per sorprendersi o per provare timore. Ma per quanto etereo e disilluso, Corto Maltese è sempre stato guidato dalla sua voglia di giocare e farsi guidare dal caso, alla ricerca dell'oblio e di se stesso, per vivere la propria integrità di uomo libero di fronte alle rovine del mondo.


«Corto Maltese non morirà…» - ha dichiarato una volta Hugo Pratt - «…Corto Maltese se ne andrà perché in un mondo dove tutto è elettronica, è calcolato, tutto è industrializzato, non c'è posto per un tipo come lui.»

Di lui rimane l'immagine sfumata di un acquarello, la naturalezza con cui passa attraverso più piani spaziali con disinvoltura e noncuranza: dalle distese infinite degli oceani e delle foreste tropicali ai ghiacci eterni del Nord e delle vette impraticabili; fra la relatà spesso brutale e storica e l'onirico, il mondo mistico e leggendario: la chiave di fuga verso il fantastico mondo dell'avventura e del trascendente, dell'incomprensibile.




All'orizzonte di quell'oceano

ci sarebbe stata sempre un'altra isola,

per ripararsi durante un tifone,

o per riposare e amare.

Quell'orizzonte aperto sarebbe stato

sempre lí, un invito ad andare .


Hugo Pratt

venerdì 23 maggio 2008

Nel sole

Sdraiati nel vento.
Sentiamo parole.
Sussurri di vetro.

E dietro c'è il vuoto.

Apri le braccia e lasciati andare.
Sprofonda nel cielo.
Sali nel mare.

Ricorda la paura




[lui agitò le braccia spoglie,
ma privo d'ali com'era, non fece più presa sull'aria
e, mentre a gran voce invocava il padre, la sua bocca
fu inghiottita dalle acque azzurre]

Ovidio, Metamorfosi VIII




mercoledì 23 gennaio 2008

Nihon


venerdì 18 gennaio 2008

Un piccolo passo

Non lo avrei mai pensatto, sei mesi fa, quando ho aperto questo blog, che ne sarebbe seguito un altro. Su splinder. Certo, è diverso da questo: raccoglie le informazioni su una mia passione, il Giappone.


In verità, è un mezzo per ordinare tutto il materiale che ho raccolto e scambiarlo con chi fosse interessato. All'inizio, ero indecisa: sono due le culture che amo sopra tutte le altre, quella orientale e quella greca. La seconda, però, permea quasi costantemente i miei pensieri e rientra nel mio campo di studi; così mi sono risolta ad aprire un blog sul Giappone.

E' comunque un amore antico anche quello per il paese del Sol Levante, con abitudini e consuetudini spesso molto diverse dalle nostre, eppure un substrato psicologico comune sembra continuare a sopravvivere.

Non so cose ne riuscirà, però al momento mi sto divertendo anche semplicemente nel costrirlo. Riconosco di aver scelto un nome abbastanza difficile da ricordare: Hanazakari no mori, che significa La foresta in fiore. E' tratto dal titolo di un'opera di Yukio Mishima, uno dei pochi autori giapponesi ad aver riscosso immediato successo anche all'estero, e influenzato in quel momento dal romanticismo nipponico.

mercoledì 9 gennaio 2008

Requiem


...e tutto si scolora.
Non resta nulla.
Solo la sfumatura di un ricordo.
Nato chissà quando.

Ti ricorderemo.
Sempre.
 

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