giovedì 6 dicembre 2007

Sms: futuro pericoloso?



Una parola ancora
Parole, parole, parole
Ascoltami
Parole, parole, parole
Ti prego
Parole, parole, parole
Io ti giuro
Parole, parole, parole, parole parole soltanto parole, parole tra noi
Ecco il mio destino, parlarti, parlarti come la prima volta


Mina, Parole parole parole (ritornello)



Alcuni anni fa, su un Topolino c'era la pubblicità di una rete di telecomunicazione mobile: promuoveva l'uso degli SMS. I primi.

Non esistevano ancora i videofonini, i cellulari di ultima generazione, quelle piccole meraviglie che sembrano un computer in miniatura.

Ricordo ancora cosa recitava la campagna pubblicitaria:


"C'è ancora una cosa che non ti ho detto...

Possibile? Dopo duecento messaggi?"


con i protagonisti seduti agliestremi di uno stesso divano, sorrisi ebeti e sgurdo fisso sul display. Avevo sorriso. Potenza della nuova tecnologia. Parlarsi senza usare le parole.


L'altro giorno, l'SMS ha compiuto gli anni: 15.

Dilaga. Ancora. E quella pubblicità, quell'immagine che mi aveva fatto sorridere, che sembrava l'esasperazione bonaria di una realtà che mai si sarebbe concretizzata, è diventata una gorttesca premonizione. Perfino ottimistica.


E mi ha fatto rimpiagere quando mia madre, per chiamarmi a cena, si affacciava al poggiolo e urlava il nome mio e di mia sorella.

martedì 30 ottobre 2007

Delle ricorrenze


Sulla riva
una collana
di fiamme di lucciole.


Kawabata Bohsa






Halloween.

Degenerazione o inconscio bisogno di ristabilire un rapporto con il nostro passato, le mostre radici?


Feste per celebrare il culto dei morti e degli antenati sono diffuse in tutto il folklore mondiale, lontane l'una dall'altra per impostazione e strutture, eppure estremamente vicine per intenti e aura di sacralità.


Samhain, la notte che precede l'alba del 1° Novembre, è un'atichissima festività celtica, che prende anche il nome di Trinox samonia o "Tre Notti dalla Fine dell'Estate". Festa sacra per eccellenza si protraeva per tre notti. Tra l'altro era considerata la notte in cui le porte dell'Altromondo si schiudono permettendo il transito tra i due piani della realtà. A Samhain, il tempo umano viene sospeso dall'intervento del Sacro, e questo rende possibile l'intrusione del fantastico nel reale. Samhain è un lasso di tempo in cui gli spiriti possono liberamente mischiarsi agli esseri umani (da qui l'idea delle maschere nate proprio per confondere gli spiriti). Hanno così luogo tutti quegli avvenimenti magici e leggendari che costellano la mitologia irlandese e gallica. Questa festa segnava l'inizio dell'inverno e introduceva l'anno nuovo.


In Giappone, ad Agosto, si celebra una simile festività in onore die defunti: l' o-bon. Durante lo O-bon, il legame molto stretto tra i vivi e i morti è vissuto collettivamente, non privatamente come avviene nel resto dell'anno. Per capire quanto questo legame sia forte, basta pensare che i defunti vengono cremati, dopodiché le loro ceneri vengono custodite in casa per 49 giorni, passati i quali l'urna (kotsutsubo) viene deposta nella tomba (o-haka). In quei giorni è consuetudine l'ohaka mairi, la visita alle tombe degli antenati, lavandole, mettendovi fiori freschi, offrendo incenso (senko), candele (warosoko), cibi e preghiere.Dopo la visita al cimitero, vengono esplosi i fuochi d'artificio (hana-bi) per dare agli spiriti il bentornato nel loro mondo. Alla fine della festa, insieme ai fuochi per accompagnarli nel viaggio di ritorno (okuribi), si fanno le tourou nagashi, "lanterne galleggianti", per poi lasciarle navigare e guidarli. Centinaia di lanterne colorate, più o meno elaborate e preziose, si muovono dolcemente sull'acqua; tra di esse spiccano quelle bianche, riservate alla commemorazione dei defunti morti nell'anno in corso.


Le suggestioni evocative sono più forti di luci e lucine al neon.

giovedì 11 ottobre 2007

Aki-autunno



Si oscura la montagna,

e ruba il rosso

alle foglie dell'autunno.


yama kurete

momiji no ake wo

ubai keri.


Yosa Buson (1715-1783)

domenica 30 settembre 2007

Scomparire




È tornata.
Quella stanza buia. Senza uscite.
Te ne sai accorta, vero?
La voce non ha suono.
Non passa nulla.
Nemmeno la luce.

Resti chiusa dentro.
Rimani.
A terra. Piegata. Avvolta. Sprofondata.

Non puoi uscire. Inutile.
Basta ribellarsi. Resta solo quell’ illusione.

Pensavi di averla chiusa.
Eri sicura di averla sbarrata. Te ne eri andata con la chiave in tasca. Per perderla chissà dove.
Dimenticata.
Passata.

Non è servito.
E tu ci sei di nuovo dentro.
Soffochi. Le mani strette alla gola.
Non respiri. O sei tu a non volerlo più fare?

Che importa? Nulla.
Lo sai. Tanto, in questa stanza non arriva niente.
E il silenzio è bianco. Come la neve. Come la paura. Ovatta.

Silenzio. Silenzio. Silenzio!
Quanto può urlare il silenzio?
Ti sembra di impazzire.
Vedi. Vedi la luce. Li fuori.

E non la puoi toccare.
Non ci arrivi.
La porta si è chiusa di nuovo.
Sprangata dietro di te.

Tremi. Piangi. Disperati.
Non serve.
Lo sai.
Lo sai anche tu.

Non serve a nulla.

Quella luce l’hai sfiorata una volta.
Ricorda.
Prima non c'era.
Adesso, non resta fuori.

S’insinua fra le inferiate.
Provaci.

Ricomincia.
Riapri.
Ritorna.
Continua. A vivere.

venerdì 28 settembre 2007

Lete: fra due realtà



La comunanza di immagini, nei pensieri e nelle illusioni di culture e civiltà che intrecciano se stesse.


A voi.

Riflettere.

Lete: fra due realtà


La comunanza di immagini, nei pensieri e nelle illusioni di culture e civiltà che intrecciano se stesse.
A voi.
Riflettere.

sabato 8 settembre 2007

Il cielo sopra Berlino

Mi piacerebbe vedere la tua faccia, giusto per guardarti negli occhi e dirti
quanto è bello essere qui…Quaggiù è bello fumare, prendere un caffè…e se lo fai
insieme è fantastico.

Peter Falk, nel ruolo di se stesso.



Wim Wanders. Maggio 2004.
Fu la prima volta che vidi questo film. La prima, grazie alla creatività del mio professore di italiano.


Una fascinazione che sfiora la filosofia, sale nelle pieghe dell’immaginazione e scende nei recessi dell’ovvietà.

Un film. Un insieme di scene trasportate su una striscia di cellulosa. Fotogrammi montati con pazienza ed arte. Splendido. Complesso, ma mai complicato. Come sono tutte le cose. Come dovrebbero essere molte cose.

Un inno.
Alla semplicità e alla bontà. Un freccia spezzata per quella banalità, per la naturalezza e la consuetudine della quotidianità che viene persa nelle pieghe di una vita che, alla fine, non viene vissuta.

Straniante.
Sentimenti conosciuti ritratti per intuizione; livello fisico ed emozionale. Temi che si intrecciano, malinconia, riflessione, dolcezza. Dolore. Rassegnazione e speranza.

Impotenza.
Davanti a qualcosa che non si capisce; davanti alla voglia di capire. E di cercare di farcela.

Tematiche. Molte.
L’infanzia, l’amore, l’identità, l’introspezione, la memoria, la possibilità di decidere…Sono molte, e non tutte facilmente afferrabili, in una trama che scorre lenta e languida sullo schermo nelle sue sfumature di chiaroscuro.

Bianco e nero. E grigio. Come la vita che sfiora il cuore di ciò che la muove, che la rende degna di esser vissuta.

I colori. Alla fine. Quando, finalmente, la corazza degli angeli diventa troppo pesante e precipita al suolo. Diventa una semplice armatura, buona solo per esser impegnata.

Chi sono io?

Basta questa semplice, ingenua, infantile domanda. È questo il fulcro della narrazione. È una domanda pericolosa. Scomoda. Perché significa affrontare se stessi. Mettersi in discussione. E, forse, restare intrappolati in un labirinto, in un circuito mentale che noi stessi creiamo, dimenticandoci di pianificare anche l’uscita.

Eppure, porsela è all’origine del dubbio, del gusto dell’uomo si sfidare. Chiunque. Anche se stesso.

Una fiaba. Dolce, lenta, struggente. Agrodolce. Come quelle dell’infanzia. Con angeli umani che scendono sulla terra, con un uomo che porta la memoria smarrita del passato, con la speranza della resurrezione fra macerie di muro e sterpaglie.





Quando il bambino era bambino, si strozzava con gli spinaci, i piselli, il
riso al latte e con il cavolfiore bollito. E adesso mangia tutto questo, e non
solo per necessità. Quando il bambino era bambino, una volta si svegliò in un
letto sconosciuto, e adesso questo gli succede sempre. Molte persone gli
sembravan belle, e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di
fortuna. S'immaginava chiaramente il Paradiso, e adesso riesce appena a
sospettarlo. Non riusciva a immaginarsi il nulla, e oggi trema alla sua idea.
Quando il bambino era bambino, giocava con entusiasmo, e adesso è tutto immerso nella cosa, come allora, soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.

Canzone d'autunno


Les sanglots longs
des violons
de l'automne
blessent mon cœur
d'une langueur
monotone. Venature sott

Tout suffocant
et
blême, quand
sonne l'heure,
je me souviens
des jours anciens
et
je pleure;

et je m'en vais
au vent mauvais
qui m'emporte
deçà, delà,
pareil à la
feuille morte.


Paul Verlaine, Canzone d'autunno, da Poèmes saturniens, 1866




Questa mattina ho raccolto una foglia di quercia. Niente di particolare. Solo una piccola foglia, uguale a mille altre. Davanti all’entrata. Vivida. Color noce. Colore finto. Di legno. L’ho alzata nella luce. contorni nitidi ed eleganti. Venature sottili e precise.

Ho percorso il bordo con l’indice. Appena seghettato.

Perfetta. Normale. Definita.

Morta.

Era morta. Inesorabilmente. Desolatamente.

Si è posata sul selciato. Lenta. Ovvia. Certa. Alla fine della sua vita. Di una vita che dura una stagione. Ho guardato in altro. All’albero. Ai rami. Cercavo. Cercavo con attenzione, con...Cercavo. E basta. L’illusione di poter tornare indietro.

Follia.

Potrei anche ritrovare il ramo che ne è vedovo. Potrei anche ritrovare il suo vecchio posto. Già, vecchio. Passato. Andato. Dimenticato. Cancellato.

Perchè questa foglia che tengo in mano non fiorirà più. Cadrà. Si dissolverà. Cenere. Grigia. Bianca. Nera. Marcio. Decomposizione. Putrido.

Passerà.

Passa tutto. Ogni più piccola cosa. Passa, e non ritorna. Nemmeno la natura. La si dice eterna...Fantasie. Non esiste nulla di eterno. E, benchè, in primavera, di nuovo, questa quercia fiorirà, la foglia che adesso riposa in un mio libro sarà stata. E nessuno la ricorderà. La rimpiangerà.

Alcuni dicono che l’autunno è triste.
Per me, è la stagione più bella. Tavolozza di colori. La mia anima.


Danza di foglie morenti.

Danza d’autunno.

Ipnosi.

Ondeggiano, giocano, s’intrecciano, oscillano…Ultimi respiri prima della terra. Prima di accartocciarsi. Irrimediabilmente svuotate.

Colori. Giallo; rosso, verde, marrone. Un’esplosione. Una bellezza intensa e struggente.

Adoro l’autunno. Questa stagione malinconica.

L’autunno.

Rami spogli: dolori vissuti. Chiome variopinte e cangianti. Intermezzi emotivi, tasselli di un puzzle che si chiama vita. E infine…infine spruzzi di sempreverdi: sogni e speranze.

Adoro l’autunno. Una stagione che pulsa di vita, d’eccitazione. Trepidazione pura.

Che mi restituisce il sapore antico del tempo che passa.

Lentamente.

Tranquillamente.





mercoledì 18 luglio 2007

Una vetta...

Quanto manca alla vetta?
Tu sali e non pensarci!


F. W. Nietsche




La vetta...


L'approdo di un porto. Il tragurdo. Lo scopo.




Quanti modi esistono, per definire il proprio obiettivo? Tanti. Tantissimi. E l'immagine è quella di una linea che divide. Che separa. Sempre. Inesorabilmente. Prima e dopo. E' e non è. Si arriva a qualcosa. A qualcosa che si è sempre voluto. Ma ha davvero senso stringere in mano il proprio sogno?



La vetta è là. Davanti agli occhi. davanti alla mente. Riluce, sfavilla, sprona. Vuoi vederla sotto di te. Vuoi poter urlare: Ecco, ce l'ho fatta. Sono arrivata. Ho vinto. Vuoi sentire il sogno frantumarsi fra le dira, scivolare di seta fra le pieghe della pelle...Vuoi sentire.


Concretezza. Certezza. Realtà. Vuoi il sogno mutato in realtà. Vuoi l'eternità di un songo. Immobilità. Separare il prima dal dopo. Scindere. Dividere. Gettare via tutto e lasciare fisso solo quel puntino: l'arrivo.




Ci sono molti obiettivi, in una vita, molti traguardi: i primi passi, la prima parola; la maturità, la laurea; il lavoro, la vita...Ci sono molte tappe nella nostra vita...Scatti nella memoria, istantanee che sbiadiranno col tempo, regalandoci solo l sfumatura di un ricordo...Solo l'emozione di una sensazione appagante.




Ci sono molti obietivi, nella vita. Ma cosa vale, veramente? Il sogno o la realtà? Cosa resta, se tocchi il sogno? Se superi il tragurdo?




Voltati. Vedi: sacrificio, cocciutagine, deternimazione. Vedi rabbia, sorrisi, volgia, speranza. Vedi una fiamma. una fiamma discreta come il pigolio di una stella. Vede te stessa. Fragile. Finita. Debole. Sai cosa temi, vero?




Sì. Lo sai: lo hai sempre saputo.




Temi il dopo. Temi il nulla. Temi il sogno toccato. Perchè sei consapevole che poi tutta combia. Non muta niente, ma qaulcosa è cambiato. E lo senti solo tu. Lo provi solo tu. Non ha nome, non ha forma, non esiste in relatà. La tua mente lo proietta, lo crea, lo costruisce.




A te sfatare la falsità dell'illusione.




A te sapre che, giunta alla vetta, davanti avrai una distesa nuova. Ripida. Una nuova montagna. Una nuova vetta. La vedi, la vetta? Certo. E' lì. Lì davanti agli occhi. Alza la mano: ti sempbra ti poterla racchiudere nel palmo, di sentire il freddo dei suoi ghiacciai, il calore del sole che la inonda.




ALza la mano. Tendi la tua mano. E riprendi a salire. Non importa quanti tragurdi supererai. Non importa mai. Non lasciare, però, che quello che ti si spalanchi davanti sia il vuoto. Il vuoto della disillusione. Lascia che si mostri il vuoto del sogno, il contorno lattiginoso della sfida. L'adrenalina della gara. Con te stessa. Solo con te stessa.




Continua a salire. Non importa quanto ci vorrà. Non importa se non arriverai mai. Concentrati. LA vetta fose non la toccherai. Mai. Ma ci sono le sporgenze. Ci sono le cime che crescono piano, che crescono con te.




Concentrati. E vivi. Vivi l'istnate, il gioco e la sfida. Vivi la tua sfida. Appieno. Solo. Tutta. Dentro. Assapora la tensione, gusta il tremore. Mangia la tua pura. Dissetati della tensione. Ricorda. Ricordati bene. Sono isntati che fuggono, ma restano in te. Sempre




Quanto manca al traquardo?


Al prossimo, poco.




Quanto manca alla vetta?


Una vita.


La mia vita.


venerdì 6 luglio 2007

Scorre...


Che cos'è il tempo?Se non me lo chiedi lo so;ma se invece mi chiedi che
cosa sia il tempo,non so rispondere.

da Confessiones, S. Agostino




Sabbia…


Mi è sempre piaciuta, la sabbia. Rilassa. Avvolge. Fredda, umida, quando si cammina sulla battigia. Calda, rassicurante, poco più in là. La sabbia…E’ un confine, netto come di colpo il suo colore vira dal chiaro allo scuro.

Netta.

Violenta. Dolorosa. Sottile. Precisa.

Un taglio. Uno squarcio. La sabbia…E’ strana…

Cos’è…Una volta era sasso, granito, roccia. Una volta, era fiera, forte, immobile. Una volta, si è lasciata trasportare dal vento, si è lasciata sciogliere dal sole. Una volta, era lontana e adesso riposa lì, su una spiaggia. Uguale a mille altre. Diversa da centinaia di altre.

Aspetta.

Aspetta che il mare la riprenda con sé. Aspetta che la porti via, che le faccia vedere una nuova spiaggia, un nuovo mondo. Così uguale. Così diverso. Sempre. Sempre. Sempre. In eterno. Perché adesso, lei è eterna. Lei continuerà a vagare, a scivolare fra salsedine e coralli, continuerà scorrere con la spuma del mare. Continuerà. Senza più passato. Senza più futuro.

Quando ero piccola, nella casa delle mie zie c’era una clessidra. Una scatolina che racchiudeva due piccole bocce di vetro. E la sabbia. Sabbia grigia. La giravo, e la sabbia scendeva piano, nella strozzatura sottile. La guardava cadere, granello dopo granello. La spiavo ammucchiarsi in una piccola duna che, piano piano si appuntiva sempre di più. Granello dopo granello. Sembrava una cascata intoccabile. Una cascata irreale. Di quelle che esistono solo nelle fantasie. Di quelle che popolano il mondo onirico di un bambino. Dove l’acqua è di sabbi e il mare di velluto.

Io fissavo la clessidra, fino all’ultimo granello. Fino a quando tutto si fermava. Allora, allungavo le mani e la giravo. Girava la sabbia; giravano le piccole colonnine intarsiate; giravano le belle bocce di vetro. Girava. E il gioco ricominciava. Di nuovo quella cascata grigia. Di nuovo un fruscio lievissimo. Di nuovo. Sempre.

Perché, per quante volte la clessidra venisse ruotata, avrebbe ripetuto sempre il suo compito: la sabbia sarebbe scivolata in eterno. Eterna. Come quella del mare.

A cosa serve la sabbia?...

Non c’è un unico impiego. È il diletto di un bambino;è la base per le costruzioni edili; è uno dei più antichi strumenti per misurare il tempo.

Il tempo…La sabbia è eterna, ma ogni cosa che sia riferita a lei è beffardamente finita. Labili i castelli di sabbia; labili le costruzioni dell’uomo. Labile il tempo. Perché, anche se continua a scorrere, se passa e sempre passerà, non può tornare indietro. Ed eterno è solo ciò che muta senza cambiare. Che comunque resta sempre uguale a se stesso.

Il tempo non è come la sabbia. Il tempo non è eterno. È solo infinito. È diverso. Continua a passare, ma nessun istante è uguale all’altro. Niente si ripete. Può solo accadere. Avviene, e si archivia. Nella memoria, nei libri, nel nulla. Passa, rimane e poi, lentamente sbiadisce. Ma non resta. Non si ferma. Non può. Il tempo corre, e con lui la vita.

Il tempo…Una clessidra racchiude il tempo; la sabbia centellina il tempo. Il tempo è sabbia, in una clessidra che, però, non può ruotare. Perché, indietro, non si può tornare.

La sabbia è eterna. Il tempo no. La sabbia resta sempre uguale. Il tempo continua a mutare. Eppure, entrambi scorrono. Fra le dita, nella mente, nell’acqua e nel vento.

Alla fine…alla fine resta solo una conchiglia, una stella marina, un ciottolo abbandonato sulla battigia. Alla fine, tutto diviene grigio. Come la sabbia della clessidra dei miei ricordi. Tutto scolora. Solo la sabbia resta. Solo lei. Ferma. Immobile.

Aspetta.

Aspetta che il mare la porti di nuovo via. Aspetta la pioggia per cancellare il confine fra bagnato e asciutto. Aspetta il vento per volare. Aspetta il sole per riscaldare.

Aspetta. Come ha sempre fatto. Perché, per lei, non esiste il tempo. Non esiste il prima e il dopo. Era roccia, forse sarà polvere. Intanto è. Sabbia. E basta. E raccoglie ciò che il mare le regala. I frammenti delle onde, gli scheletri della vita.

martedì 3 luglio 2007

Delirio razionale

A volte sazio il cuore di pianto, altre volte
smetto chè dal gelido pianto viene in fretta stanchezza.

Omero, Odissea, IV 102-103 (Menelao)



Lacrime.
Sorrisi.
Non esiste altro.
Solo lacrime. E sorrisi.
Perché la vita è questo.
Istanti di dolore.
Sospiri di felicità.
Momenti.
Di speranza. Di disillusione.
Questa è la vita.
Solo questo.

Frammenti.
Carrellate di emozioni.
Sensazioni.
Scandiscono confusamente l’esistenza.
Schegge.
Increspature.
Irrazionalità.
Perché nulla ha reali spiegazioni.
Confusione.
Di anima e ragione.

Oscurità.
Di origine e di destino.
Esistenza.
Unica certezza.
Perché la si desidera.
Ardentemente.
Nonostante tutto.
Scivolate e delusioni.
Inganni e apparenze.

Perché è un gioco.
Condotto senza avversari.
Perché neanche quelli esistono.
Vincitore o vinto.
Domatore o domato.
Non c’è differenza alcuna.
Perché giocare vuol dire vivere.
D’illusioni e di bugie.
Di sogni e di speranze.
Solo vivere.
E ciascuno sceglie la propria vita.

Non importa al mondo.
Ha binari ben tracciati.
Procede dritto. Non deraglia.
No. Lui, no.
Corse veloci.
Istanti labili.
Inconsistenza.
Sempre binari.
Rotti. Dissestati.
Binari.
Di profughi. Di re.
Binari di vita.

Però è la vita.
Una vita che vuole essere vissuta.
Per questo bisogna vivere.
Vivere ogni istante; assaporandolo fino in fondo.
La banalità del quotidiano.
L’irripetibilità di un momento magico.
Vivere.
Camminando a testa alta.
Verso il destino che si può plasmare.
Secondo la propria volontà.
Secondo i propri sogni.

Perché vivere significa lanciarsi in avanti.
Sempre.
Verso qualcosa di superiore.
Verso la perfezione.
Lanciarsi; e cercare di arrivarci.
Anche se è difficile.

Bisogna vivere.
Per sognare.
Perché esistono realtà che neanche il sogno può svelare.
Ma bisogna continuare.
Bisogna sognare.
Perché i sogni vivono finché si è disposti a sperare.

lunedì 2 luglio 2007

Sulla banalità...




Ho visto
la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già.
Lungo le notti che dal vino son bagnate
dentro le stanze da pastiglie
trasformate.
Lungo le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città,
essere
contro od ingoiare la nostra stanca civiltà.
E un Dio che è morto.
Ai bordi delle strade Dio è morto
nelle auto prese a rate Dio è morto
nei miti dell'estate Dio è morto.
Mi han detto che questa mia
generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la
fede
nei miti eterni della patria o dell'eroe
perché è venuto il
momento di negare tutto ciò che è falsità .
Le fedi fatte di abitudini e
paura.
Una politica che è solo far carriera
il perbenismo interessato,
la dignità fatta di vuoto
l'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione
e mai col torto.
E un Dio che è morto
Nei campi di sterminio Dio è morto
coi miti della razza Dio è morto
con gli odi di partito Dio è morto.
Ma penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo
e a una speranza appena nata
ad un futuro che ha già in mano, a
una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio
muore è per tre giorni
e poi risorge
in ciò che noi crediamo Dio è risorto
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto
Nel mondo che faremo
Dio è risorto,
Dio è risorto.




Francesco Guccini






Forse ci si chiederà perché ho deciso di iniziare questa riflessione con il testo di una canzone…Non sono una patita di musica, e quella che ascolto e conosco è filtrata attraverso i miei interessi universitari in maggior parte. Questa canzone, scritta da Francesco Guccini, che adoro per l’andamento poetico dei suoi testi, e cantata dai Nomadi, è un vecchio successo, che forse voi probabilmente già conoscete; io l’ho sentita per caso alla radio di un bar, mentre pranzavo. E mi ha trafitto. Sì. Proprio trafitto.

Il motivo? Banale: quanta forza può esserci in ovvietà sbattute in faccia alla gente? Sul ritmo di note incalzanti, che ti trascinano facendoti battere il cuore alla follia? Forse queste mie parole sono un’accozzaglia di luoghi comuni, utili solo a riempirsi la bocca o le righe di questa mail.

È vero. Quelle che dico sono ovvietà. Ma lo sono anche le parole che si susseguono in quella canzone. E allora, perché ha avuto successo? In fondo, non dice nulla di nuovo. Parole trite e ritrite. Che la nostra società si regga su basi individualistiche e arrivistiche è ormai una realtà consolidata. Forse ovvia. Perché l’uomo, benché sia un “animale politico” come amava definirlo Aristotele, è anche per natura egocentrico. Attenzione. Non voglio dare un giudizio di condanna; semplicemente, credo che ogni azione, anche la più disinteressata, rientri in un circuito mentale che comunque ha come referente sempre e solo la persona che compie il pensiero stesso. Anche se a livello di subconscio.

Per me, che studio di una civiltà in cui l’opinione altri era il perno del proprio atteggiamento, una “civiltà di vergogna”, come la definisce Hawelock, dove il mito e le chimere partorite dalla mente sono realtà incontrastabili, sicurezze certe e inequivocabili, vedere la degenerazione della figura del mito al semplice calciatore o alla cantante in auge al momento, significa andare a sbattere con lo sfacelo del mondo; un mondo in cui la gente si lascia trascinare, in cui l’importante, l’indispensabile, è conformarsi. Al momento vanno di moda i reality? Benissimo! Tutti appassionati di reality allora.

E’ questa la capacità di pensare cui ci dovrebbero abituare 4000 anni di storia, di pensiero, di filosofia? E’ questo il mondo in voglio vivere? Non ho pretese di cambiarlo, perché so che razionalmente non posso farlo. Però, mi basta restare fedele a me stessa, a costo di sentirmi criticare e sbeffeggiare, a costo di far la figura dell’ignorante perché non conosco il nome del protagonista dell’ultimo scandalo. Non è questo quello che voglio sapere. Non è questo che mi mostra la realtà.

E allora, ben vengano anche le parole abusate di una canzone, che almeno hanno il merito della banalità. Già, la banalità…Quante volte, i professori ci hanno detto di rifuggire dai pensieri comuni? Che “Dio è morto, che la società non ha più ideali…” sono opinioni diffuse. Consolidate. Ma forse proprio per questo, ormai ci scivolano addosso senza più toccarci. Io non ritengo che sia giusto procedere di luogo comune in luogo comune, ma sono convinta che anche la banalità abbia la sua importanza.

Il fatto che un pensiero sia sopravvissuto uguale nel tempo, sia stato sbandierato e riproposto fino alla nausea, non significa assolutamente che sia il prodotto di una retorica vuota e disillusa. Io sono fermamente convinta che la banalità sia importante. Intendiamoci: adesso non voglio dire che tutti dobbiamo abbandonarci alla mediocrità di pensiero. Ma neanche ignorare i messaggi che ossessivamente ci vengono fatti rimbalzare in testa. Cosa si nasconde dietro l’apparato convenzionale di una frase? Perché quella frase, adesso? Per quale motivo? Forse sto semplificando troppo la cosa, ma io sono una ferma sostenitrice “dell’importanza del banale”. Senza affondare nel convenzionale.

domenica 1 luglio 2007

Van Gogh

E' vero che in natura esiste sia
l'appassire sia lo sbocciare dell'amore, ma nulla muore completamente. E' vero
che c'è un flusso e un riflusso, ma il mare resta mare.

Vincent Van Gogh


Ricordi?
Erano ulivi.
Cerulei.
Blu.
Bianchi.
Tocchi leggeri; veloci.
Frammenti.
D'intensa passione.
Alberi.
Massicci e aggraziati.
Contorti.
Nel tronco nodoso.
Nelle chiome indistinte.
Solo ulivi.
Fra cielo e terra.
Groviglio indistinto.


Ricordi?
Fiamme guizzanti.
D'acciaio.
D'argento.
Lingue d'inferno.
In un groviglio policromo.
Di pennellate fugaci.
Di spasmi di passione.
Sibilano.
Ondeggiano.
S'intrecciano.


Ricordi?
Ulivi.
Fiamme.
Cocci sulla tela.
Solo una macchia indistinta.
Solo questo.
Aggrovigliata.
Crepitante nel suo silenzio.
Turbinante nella sua staticità.
Immobile.
Ansimante.
Ipnotica: spirale cromatica.
Soffocante.
Gelo di fuoco.
Ardore di diamante.
Follia.
Visiva. Mentale.
Irrazionalità.


Ricordi?
Erano ulivi.
Erano fiamme.
Solo questo.
Nulla in realtà.
Solo un istnate.
A parlare con te.


Oltre il sogno...

Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi
da Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry




Oltre il sogno...

Cosa c'è oltre il sogno?...Immagii, illusioni, proiezioni oniriche del nostro subconscio. Oltre il sogno c'è un mondo?...Esiste qualcosa?...Impuarisce. Terrorizza. Attrare. Perchè qulacosa c'è, aldilà della nostra mente. Ci deve essere. Altrimenti...Altrimenti non ne varrebbe la pena. Non vale la pena nenahce di illudersi.

Non ho mai provato a varcare il sogno.

Perchè?...Si dice che quando un'illusione viene sfiorata, sconpare. Si dice che un idolo va guardato, adorato, ma mai toccato. E il sogno è come una divinità da gurdare. Ma da non sfiorare. Altrimenti, rimane solo il nulla. Il vuoto.

No. Non ho paura del nulla che ci potrebbe essere oltre il mio sogno. Semplicemente, non c'è distinzone fra realtà e sogno. Sono un tutt'uno. Perchè bisogna vivere il sogno: nel dolore, nello sconforto, nel nulla; nella gioia, nella speranza, nel sorriso...
Bisogna vivere il sogno, come si vive la vita.
Perchè il sogno é vita.

Oltre il sogno non c'è il nulla.
Oltre il sogno non c'è il vuoto.
Oltre il sogno c'è la vita.
Oltre il sogno...c'è la mia vita.

Quella che posso, voglio costruire. Su nuvole di certezze. Su mattoni di fantasie.
Perchè la mia vita è nelle mie mani. Nel gioco della mia mente, nell'illusione della notte. Non bisogna temere la notte. Non bisogna temere il sogno. Bisogna illudersi.

Bisogna.

Bisognerebbe...

E non importa se alla fine rimarrà poco o niente. Non deve interessare. Non mi deve interessare. Finchè potrò sognare, finchè avrò la volontà di illudermi, allora...Allora sarò ancora vita. E sogno. Perchè altro non c'è. E la vita può, deve essere un sogno.

 

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